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Odio
Alessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it
Una padella per due
La ristorazione raccontata da due protagonisti in cucina: intervista doppia in enoteca a Giovanni Scapin dell’Antica Trattoria Da Doro di Solagna e ad Alex Lorenzon del Ristorante Ca’ 7 di Bassano
Pubblicato il 15-11-2023
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Rieccoci qua. Diamo spazio a una nuova puntata della nostra rubrica delle “Interviste in enoteca” ai personaggi del nostro territorio, ospitata all’enoteca Sant’Eusebio all’hotel Alla Corte di Sant’Eusebio di Bassano del Grappa.
Questa volta però la nostra è un’intervista doppia.
Un incontro in contemporanea con due “big” della ristorazione bassanese: Giovanni Scapin, chef e titolare dell’Antica Trattoria Da Doro di Solagna e Alex Lorenzon, chef e manager del ristorante Ca’ 7 di Bassano del Grappa.
Giovanni Scapin e Alex Lorenzon (foto Alessandro Tich)
Perché di ristorazione vogliamo parlare, raccontata dall’esperienza diretta di chi la vive con il proprio lavoro tutti i giorni, incrociando i punti di vista dei fautori di due casi di successo nel settore.
E chissà che da questa intervista doppia davvero inedita non nasca la sceneggiatura per un nuovo film da guardare ogni anno a Natale: “Una padella per due”.
Alex Lorenzon, lei come definirebbe Giovanni Scapin?
Istrionico.
E lei, Giovanni Scapin, come definirebbe invece Alex Lorenzon?
Pratico.
Che cosa significa per voi “ristorazione”?
Scapin:
Ristorazione vuol dire soprattutto dare un servizio al cliente, che è un servizio di cortesia, non una prostituzione.
Lorenzon:
Ristorazione, dal mio punto di vista, è far vivere tradizioni che oggigiorno vanno perse. Quindi, riuscire anche ad educare il cliente più giovane verso tradizioni e culture, perché questo siamo.
Alex ha un po’ anticipato la mia prossima domanda. Quando si parla di ristorazione prima o poi viene fuori la parola “tradizione”. Che senso ha per voi questa parola?
Scapin:
Tradizione vuol dire non restare fermi sulla cucina dei padri. Guardare alla cucina dei padri e guardare al futuro con l’occhio della cucina dei padri. Questa è la tradizione. Perché il tempo cambia, cambiano le mode, i costumi e cambia anche la maniera di mangiare.
Lorenzon:
Sì, ma anche capendo giustamente dai padri il perché venivano fatte certe cose. E dopo, e concordo con Giovanni, riuscire in chiave moderna ad avvicinare più persone, perché certi piatti oggi sarebbero improponibili.
Qual è il vostro piatto della tradizione più “rivoluzionario” rispetto alla tradizione?
Scapin:
L’aringa. L’aringa che viene fatta con un saòr di cipolle, una panna acida e del cappuccio cotto. Dunque, è un connubio abbastanza insolito. Abbiamo l’aringa come tradizione e il cappuccio, la verza come base della nostra tradizione povera. Poi la panna acida è un po’ mitteleuropea.
Lorenzon:
Per me, parlando di asparagi, è l’uovo dorato alle erbe con asparagi e mandorle. L’uovo di casa, di galline alimentate non con mangimi e quindi con cose chimiche, a volte ha dei sentori di mandorla. Il riuscire a replicarli porta all’attenzione del cliente il fatto che tante volte facciamo questi abbinamenti perché non tutti coltivano più nello stesso identico modo.
Ma secondo voi i clienti hanno una “sensibilità” per apprezzare queste cose?
Lorenzon:
Le apprezzano nel momento in cui tu non le dai per scontate. Ritorniamo al punto di partenza e cioè che il cliente va sempre educato. E chi ha questa “missione” siamo proprio noi ristoratori. Perché se noi per primi ci documentiamo, o come fa anche Giovanni che per la sua verza va alla ricerca proprio del contadino, è giusto diffondere queste conoscenze. Chi fa ricerca, chi si documenta è anche giusto che dopo trasmetta all’utente finale alcune cose, proprio per educarlo. A volte bisogna riuscire a cogliere la curiosità di chi mangia, facendo capire che la cucina non è solo un qualcosa di meccanico perché devo alimentarmi, perché tu ti alimenti anche con un panino. Quindi, educare di continuo. Non perdere mai questa voglia di spiegare e di raccontare anche il perché e da cosa nasce il piatto.
Scapin:
Come ha detto Alex, concordo in pieno. Alex ha riassunto benissimo il concetto.
Questo territorio non è fatto solo di monumenti e di ponti. È fatto anche di natura, di piante, di erbe e di tante altre cose. Quanto vi aiuta questo territorio nel vostro lavoro?
Scapin:
Il territorio è importante soprattutto se si fa sinergia con chi raccoglie queste cose in una maniera fatta bene. Se no il territorio resta una cosa asettica, a parte. Si deve andare in ricerca di chi raccoglie bene, di chi fa bene un prodotto e fa una cosa seria. “Seria” non vuol dire per forza un prodotto biologico. Uno deve conoscere bene la materia e trasformare bene la materia, come produce una cosa e come si fa una cosa. Questo è importante.
Lorenzon:
Il territorio dà una mano. Come tanti anni fa per riuscire ad avere i colori dovevi macinare della terra o dei sassi, così le erbe spontanee e il territorio aiutano a dare un’autenticità a ciò che stiamo facendo, proprio perché abbiamo una conformità completamente diversa rispetto al sud. L’esempio più semplice è il limone. Non possiamo pretendere di avere lo stesso limone che c’è a Sorrento. Ecco che da là nascono giustamente delle ricette con la freschezza del limone. Qui da noi abbiamo il tarassaco e tante altre erbe che danno una caratteristica di autenticità. Come una firma.
Qual è la vostra prima regola in cucina?
Scapin:
La prima regola in cucina, secondo me, è lavorare meno il prodotto. Più il prodotto è buono, meno serve lavorarlo. Il prodotto deve essere buono e scelto. Deve essere quasi un’operazione Zen. Il rispetto della materia prima è la prima cosa. Io devo cucinare una cosa e il cliente deve sentire il cibo che sta mangiando. Non devo fare un artifizio della cosa che sta mangiando.
Lorenzon:
Una delle cose che spiego sempre al cliente è che nel momento in cui uno ha una materia prima di qualità, non diventa neanche difficile far da mangiare. Perché siamo solo noi che potremmo ovviamente “rovinarla”. Si va a sofisticare troppo un piatto nel momento in cui devi camuffare qualcosa che non funziona.
Giustamente, Giovanni e noi come concetto di cucina abbiamo un rispetto primario della materia prima. Cerchiamo sempre di tenerla nel modo più semplice possibile perché deve “uscire” l’ingrediente.
Alcuni vostri piatti sembrano delle opere d’arte. Quanto conta il gusto e quanto invece la presentazione?
Lorenzon:
La presentazione conta perché in una società come questa il “belvedere” stuzzica comunque l’attrattività, perché se vedo una cosa non bella, difficilmente mi invita a mangiarla. Se la vedo bella e la trovo anche buona, ho fatto il cento per cento del mio lavoro. Abbiamo cinque sensi e uno dei sensi è la vista.
Scapin:
L’occhio è la parte più importante. L’occhio ti invita a mangiare.
Con che sensazione auspicate che un cliente esca dal vostro locale dopo aver mangiato?
Lorenzon:
La soddisfazione più grande è che il cliente possa cogliere la fatica e il sacrificio che sta dietro anche a un semplice piatto e che non c’è niente e nulla di banale. Neanche in una patata lessa. Perché la patata va ricercata di un certo tipo, va mondata, pulita e cotta. E poi il servizio. Il servizio significa che ti do un prodotto freschissimo, che però costa grandi sacrifici da parte nostra.
Scapin:
Il cliente, su qualsiasi cucina, deve essere innanzitutto soddisfatto di cosa ha mangiato ma soprattutto deve essere incuriosito dal cibo che ha mangiato. Perché la curiosità fa in modo che il cliente poi ritorni. La curiosità stimolata dal cuoco che ha fatto il piatto e ci ha messo il massimo impegno per dare un risultato interessante. Adesso secondo me la qualità del cibo si è alzata dappertutto. E appunto per questo è diventata un po’ standard dappertutto. Dare la curiosità è quel “quid” in più.
Alex, se lei dovesse andare a mangiare da Doro, che tipo di piatto le piacerebbe gustare, conoscendo Giovanni?
Conoscendo Giovanni, e riallacciandomi a come lo vedo, lascerei fare a Giovanni. Perché in base alla giornata - e oggi c’è il sole ed è autunno -, Giovanni è ispirato. Domani mattina c’è nebbia e fa freddo, e Giovanni è ispirato in un altro modo. Perché lui sa cogliere il momento e quindi lascio spazio alla sua creatività.
Giovanni, se lei invece dovesse andare a mangiare da Alex al Ca’ 7?
Non per essere “ruffiano”, ma è la stessa cosa. Mi fido di Alex e dei ragazzi che fanno da mangiare al Ca’ 7, dove sono andato a mangiare più volte e non hanno mai sbagliato un colpo. Quando si va da un professionista o da un amico, non si dice “cosa voglio mangiare”. Si dice: “cosa fai tu?”. Perché è come quando vai nella cucina di mamma: la cucina di mamma ti propone le cose migliori.
L’accostamento del vino
Come sempre, al termine dell’intervista il patron dell’enoteca Sant’Eusebio Roberto Astuni accosta una particolare vino al personaggio intervistato, in base alle sue caratteristiche.
Questa volta però gli intervistati sono due. Quale sarà il tipo di vino dal “valore doppio” prescelto per l’occasione?
“Intanto voglio precisare che non solo Giovanni ed Alex sono colleghi/amici - spiega Astuni -. In tanti anni con diversi colleghi ho instaurato rapporti che vanno oltre il lavoro. Ho scelto loro due perché rappresentano, a mio avviso, due “anime di eccellenza” seppur in ambiti diversi. Altra premessa è che è stato veramente difficile trovare un vino da abbinare a loro e che li accomuni.”
“Ma partiamo da Giovanni (per anzianità) - prosegue -. Di lui ho sempre ammirato la sua “purezza culinaria”, il buon gusto, senza eccessi, della sua cucina. Di Alex ammiro invece le sue doti imprenditoriali, il suo modello vincente di cucina d’autore. Sia con Giovanni che con Alex mi confronto spesso su tematiche comuni e ogni volta ne usciamo arricchiti:il vero spirito di gruppo!”.
“Ma adesso veniamo al vino abbinato: ho scelto un orange wine, in particolare uno dei migliori sul mercato, il Julian Orange della cantina Lieselehof dell’amico Werner Morandell, anche lui un sostenitore della nostra Piwiteca. Viene prodotto da vitigni Piwi, in particolare il Bronner a Caldaro in SudTirolo. I vini orange vengono prodotti partendo da uve a bacca bianca ma vinificate in rosso, ovvero mediante l’uso della macerazione, fase in cui il mosto rimane a contatto con le bucce dell’acino.”
“Le motivazioni sono due - conclude Roberto Astuni -. La prima è che il Julian Orange è un vino che non ti aspetti. Proprio come Giovanni ed Alex. La seconda è che è anche un vino che si abbina praticamente con tutto, dalla carne al pesce, dalla cucina della tradizione a quella “fusion”. Proprio come Giovanni ed Alex. Ma lascerò ai lettori l’interpretazione di queste ultime affermazioni. Julian Orange è anche il vino delle occasioni speciali e questa, credo, sia una occasione davvero speciale!”.
Immancabile cin-cin conclusivo del padrone di casa con i due ospiti di oggi della nostra rubrica.
E arrivederci al prossimo G8 (leggasi, come sempre, “Gotto”) a tutti voi.
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