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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Interviste

A tu per tu con Giulia Scomazzon

L'autrice di Marostica parla del suo libro autobiografico e porta a galla un Bassanese anni Ottanta rimosso, minato da problemi di droga, da tante morti per Aids

Pubblicato il 10-06-2023
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Rinascimento in bianco e nero

Uscito lo scorso gennaio e scritto da una giovane donna di Marostica che attualmente fa l’insegnante, Giulia Scomazzon, La paura ferisce come un coltello arrugginito, edito da Nottetempo, è un libro che parla di Roberta, sua madre, e naturalmente di Giulia, ma al di là dell’aspetto autobiografico e dei fatti di cronaca anche racconta, il romanzo restituisce tante inquadrature interessanti di un’epoca e di azioni e comportamenti che l’hanno caratterizzata, qui sul territorio come altrove.
Il periodo è quello degli anni Ottanta, contraddistinti da un forte consumo di eroina e dalle morti per overdose e per sindrome da Aids causata come in questo caso dallo scambio di siringhe tra i tossicodipendenti. Roberta e il padre di Giulia da giovanissimi furono consumatori per un breve periodo di eroina, e questo fece diventare Roberta sieropositiva e poi ammalata gravemente, tanto da morire per le conseguenze dell’infezione. Era incinta di Giulia quando apprese la notizia ed è Giulia che racconta la madre, con lei il padre e altre figure famigliari, in particolare la nonna, insieme alle reazioni e alle non reazioni di una piccola comunità come Marostica che si fa mondo intero, minata in quegli anni per conseguenza del consumo di droga pesante da tante morti premature.
L’avvio al libro l’ha dato una psicologa, consigliando a Giulia, che soffriva di attacchi di panico, di mettere per iscritto pensieri e ricordi legati all’infanzia e al trauma della perdita della madre, ma prima il blog e la pubblicazione poi vanno ben oltre la connotazione degli esiti di una scrittura terapeutica, da un lato per la piacevolezza dello stile, dall’altro perché lo sguardo che l’autrice getta sulla sua famiglia e sulle vicende che l’hanno coinvolta si allarga e si restringe, alternando lenti e cambiamenti di ottica, per inquadrare con mano ferma temi come la tossicodipendenza, le dinamiche dell’adolescenza, la salute mentale e il decadimento fisico, lo straniamento insieme all’estraneità messi in atto dalla società e dallo Stato di fronte a un problema grave, di cui si sapeva poco, che coinvolse all’improvviso la vita di tante persone; nel contempo svolge a frammenti un’indagine sui meccanismi della memoria e dell’oblio, sulle ipocrisie della censura, sulla costruzione del sé in riferimento agli altri e sulla fatica di stare al mondo che tanti esseri “pensanti” provano nel corso dell’esistenza.

Giulia Scomazzon (al centro) a Marostica, ospite del gruppo Insieme per leggere

Ne parliamo con l’autrice.

“Otto anni di convivenza con una condanna a morte senza impazzire, senza tormentare gli altri con la propria paura di impazzire”, scrivi riferendoti a tua madre. Tu parti invece, al contrario, dalle tue paure nel porti pubblicamente attraverso un libro. Un ribaltamento di quelli necessari madre-figlia?
Ho deciso di confrontarmi “seriamente” col (non)ricordo di mia madre con la speranza di comprendere e curare il rapporto ossessivo che avevo e ho con la paura della morte e i suoi effetti concreti e logoranti nel quotidiano (la fobia del sonno, delle altezze, della folla, degli spazi troppo chiusi o troppo aperti, ecc.). Quando ho cominciato a scrivere di Roberta, mi sono resa conto che per essere all’altezza di ciò che lei era stata, per raccontare la sua forza e umiltà come madre e lavoratrice, avrei dovuto combattere contro le mie paure, in primis quella di diventare visibile agli altri, assieme a lei o al suo fantasma. Penso sia per questo che ho scelto sin da subito di inserire la mia scrittura in uno spazio pubblico, anche se limitatissimo, almeno in termini di lettori, come quello del blog.

L’uso del linguaggio come forma di distanziamento: ne parli in un capitolo iniziale. Le parole sanno far sparire quella “sensazione di freddo e di proibito” che hai conosciuto?
Non credo che le parole, la pratica del dire o dello scrivere, facciano sparire in automatico quella “sensazione di freddo e di proibito” percepita a livello personale, ma credo possano farla emergere su un piano pubblico ed è lì, all’aperto, che i traumi inseguono e, a volte, trovano la via per una loro riparazione, un modo, cioè, di diventare abitabili da quell'essere sociale e politico che è l’uomo, nonostante la dimensione, in apparenza, individuale e solitaria del dolore che lo affligge. Ci si deve sforzare di uscire dall’incomunicabilità quando ciò che si ha da dire potrebbe essere importante o utile per gli altri. Per me questo è un principio etico reale a cui la letteratura può assolvere.

Nel parallelo che fai (e che condivido) guardando alle affermazioni di tanti no-vax, no green-pass che associavano la propria condizione di discriminati a quella dei sieropositivi negli anni Ottanta, “meno osceno di quello con la Shoah” ma certo imbarazzante, ti servi come altrove di immagini tratte dal cinema per spiegare. Che rapporto hai con quest’arte?
Ho un rapporto vitale con il cinema. Dopo una triennale in Filosofia, in cui riponevo aspirazioni esistenziali eccessive (che sono, ahimè, rimaste disattese), ho scelto di studiare cinema perché elaboro con più facilità i contenuti veicolati da immagini e suoni che quelli trasmessi dalla parola scritta e, lo ammetto, ho provato a lungo disagio e noia di fronte alla complessità, a mio avviso elitaria, del linguaggio filosofico. Dopo la magistrale in Cinema, ho proseguito gli studi con un dottorato sulla rappresentazione documentaria, cinematografica e televisiva, del colpevole. Mi piace pensare che il mio percorso di studi abbia avuto un’influenza positiva sul mio stile di scrittura che io immagino come una ricerca ostinata di immagini in movimento, ovvero con ricordi vitali, ma anche come un confronto lucido con questioni etiche e politiche per me fondamentali.

L’etichetta del “buon padre” negli anni Ottanta era rappresentata dal corpo massiccio di Vincenzo Muccioli, scrivi. Tuo padre è descritto come una figura defilata, appare in qualche modo centrato su se stesso, ed era un appassionato lettore. Ti ha trasmesso il suo rapporto l’amore con i libri.
In effetti, potrei pensare a mio padre come a una sorta di anti Muccioli. È sempre stato piuttosto smilzo e poco affamato, ma soprattutto detestava gli atteggiamenti autoritari e, da padre, li ha evitati in tutte le fasi della mia crescita. Non c’è dubbio che sia stato mio padre a trasmettermi l’amore per la letteratura, specie perché questa trasmissione è sempre avvenuta dentro una specie di dinamica paritaria che forse lo alleggeriva dall’angoscia di essere un giovane padre veneto. Mi ha sempre parlato dei suoi libri preferiti, perlopiù letteratura russa e angloamericana, come farebbe un amico che stimi profondamente che ti consiglia i libri spiegandoti l’impatto che hanno avuto su di lui, sulla sua formazione.

Il centro dello spaccio a metà degli anni Ottanta in zona era qui a Bassano, in Piazza Libertà “in un posto dove ora c’è un bar chic frequentato dalla migliore borghesia bassanese, quella che non si scompone di fronte a uno spritz a cinque euro anziché a due e cinquanta” (chi c’era se ne ricorda bene n.d.r.). Tu fai l’insegnante, li osservi con attenzione i giovani d’oggi. Cosa vedi?
Faccio sempre fatica a esprimere un giudizio univoco e coerente sui giovani d’oggi perché le esperienze con i singoli studenti variano moltissimo l’una dall’altra e per me è importante riconoscere le loro individualità, cioè impegnarmi a non leggerli come una categoria sociale preformata. Quello che ho riscontrato, almeno sul territorio vicentino e solo per un paio d’anni, è una sorta di profondo senso di impotenza rispetto alla struttura economica e politica in cui siamo immersi. Nonostante la vita della Generazione Z si sia dipanata tra crisi finanziarie e ambientali, tra pandemie e guerre, la maggioranza dei ragazzi con cui ho avuto a che fare fatica a sviluppare un senso critico verso l’andamento della storia e le sue ingiustizie e in questo, io credo, gioca un ruolo determinante il mercato e la sua capacità di assorbimento pressoché totalizzante dei desideri giovanili. Devo aggiungere, però, che anche l’istituzione scuola, dal mio punto di vista, ha delle responsabilità enormi. I programmi ministeriali sono rimasti identici a quelli di quando andavo al liceo, circa vent’anni fa. L’insegnamento della storia, della filosofia, dell’arte o della letteratura italiana e inglese continua a spegnersi appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un breve accenno alla Guerra Fredda. Per interpretare il mondo contemporaneo gli studenti degli anni Venti del 2000 dovrebbero essere dotati di strumenti di analisi della realtà decisamente più aggiornati, specie considerando che, a partire dalla fine del ‘900, il mondo è andato incontro a mutamenti enormi sul piano tecnologico, culturale, economico e politico.

Il futuro come una lama, è il titolo di uno dei capitoli: tagliente, ferente perché il futuro è associato alla parola e ai dettami della vita “adulta”. Ma da adulti si hanno le armi per intraprendere quelle che scegliamo come le nostre battaglie.
Come dico nel libro, non amo la parola “adulto” perché spesso mi sembra nascondere una vocazione alla gerarchia e all’autoritarismo rispetto ai bambini, ai giovani o agli anziani (almeno quelli non più autosufficienti). Forse è solo una mia fissazione, ma l’unica nozione etica utile che riesco a estrapolare dalla categoria “età adulta” è quella, per me fondamentale, della responsabilità. Si diventa adulti quando si diventa responsabili delle proprie scelte di vita e dell’impatto che le proprie scelte hanno sui vissuti degli altri e sulla collettività. In quest’ottica penso che molti adulti siano tali solo ed esclusivamente per ragioni anagrafiche, anche se guadagnano un buono stipendio o hanno stipulato un mutuo. Credo che un ventenne abbia potenzialmente le armi per intraprendere una giusta battaglia, il punto è se noi adulti vogliamo o meno comprendere le ragioni di questa battaglia ed, eventualmente, accettarne i rischi.

In una recente presentazione del libro, proprio a Marostica, in vero emozionante, hai parlato di un nuovo progetto narrativo. Puoi anticiparcene l’argomento?
Mi imbarazza un po’ perché dovrebbe trattarsi della mia prima prova letteraria di finzione e non so dire come andrà e se sarà mai davvero pronta per una pubblicazione. Per ora potrei descriverla come una storia di crescita e di amore nella provincia vicentina, inquadrata dentro a un contesto sociale profondamente segnato dai temi del lavoro, dei soldi e dell’alcol. La dipendenza dall’alcol in relazione alla mia terra è un tema che mi intriga moltissimo perché contiene contemporaneamente un bisogno esistenziale di evasione e di conformazione che rende bene le ambiguità umane di questo territorio così ricco e, allo stesso tempo, triste, silenzioso e arrabbiato.








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