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Quando una serie è più efficace della realtà
Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Primo piano
Modalità lettura 1 - n.7
Una recensione di Bianco, di Bret Easton Ellis, libro dove vive l'autore a tinte forti di American Psycho
Pubblicato il 19-04-2020
Visto 1.896 volte
La “bolla del privilegio del maschio bianco” è quella da cui si trova a guardare la realtà e la sua vita Bret Easton Ellis in questo libro autobiografico titolato Bianco (Einaudi, 2019, traduzione Giuseppe Culicchia, 268 pagine, 19 euro). La sua una constatazione di fatto che era apparsa all’orizzonte già da tempo e da cui non può prescindere, sebbene non consideri né essere maschio né essere bianco condizioni che possano definire in qualche modo la sua identità.
Ellis è uno scrittore, prima di ogni altra cosa; poi un cinquantenne, uno della generazione X; un appassionato di cinema; uno di Sinistra che non riconosce più la Sinistra; un omosessuale; un intellettuale; un ansioso; uno senza peli sulla lingua… sopra a tutto un “americano”. Bianco è anche una condizione del lutto, il tempo sospeso nel dolore che ha descritto nel suo Album Joan Didion, scrittrice e persona da sempre ammirata da Ellis bit.ly/2XP0oa6 e il lutto qui c’è, di sicuro ci sono in cassettini a scomparsa alcuni dei suoi effetti: lo smarrimento, la parabola della mancanza, la percezione costante di vivere ormai solo un “post qualcosa”. C’è poi una Casa Bianca, che impera in tanta parte delle pagine a motivo delle azioni del suo recente occupante e padrone, Donald Trump.
Di sicuro, indugiando per qualche attimo sullo spettro cromatico e per qualche ora tra le pagine dei suoi libri non è certo il bianco il colore che potresti pensare affine a uno come Bret Easton Ellis. L’autore a vent’anni di Meno di zero e a ventisette di quel capolavoro che è American Psycho vivrà anche in una bolla, ma di quelle di un’iridescenza strepitosa, allucinatoria ma lucidissima nella sua visionarietà. Leggendo anche questo libro, sembra impossibile di sentirsi così a casa, di conoscere l’America — cioè, gli Stati Uniti d’America — tanto da vicino, con le persone famose che ci abitano in buona percentuale nostre contemporanee divenute chissà dove e quando famigliari. La televisione e poi la rete hanno fatto sì che attori, cantanti, artisti, e poi via via scendendo e avvicinandoci negli anni i signor nessuno senza arte né parte che pontificano e influenzano su Facebook o Instagram ci diventassero più vicini dei vicini che stanno a due passi dal luogo dove ci rifugiamo, dalla nostra abitazione: non è normale né conveniente, questo effetto a collo di bottiglia sfocia in piena nell’omologazione.

da American Psycho, film del 2000 tratto dal romanzo omonimo di Bret Easton Ellis
Patrick Bateman ai nostri giorni sarebbe uno della Silicon Valley, dichiara Ellis, il presunto serial killer protagonista di American Psycho farebbe largo uso dei social in un’epoca in cui droni e telecamere e codici QR d’altra parte svelerebbero all’istante i suoi crimini efferati, la sua colpevolezza. Il modello odierno a cui tendere è la vittima, continua lo scrittore, e questo la dice lunga sull’affrancarsi di ideali autoritari che si incuneano nell’opinione pubblica camuffati ma neanche tanto da tutela o da giustizia riparativa.
Stiamo covando una generazione di inetti, afferma Ellis, giovani e non più giovani ipersensibili al giudizio degli altri, al consenso da giocarsi a suon di like, già fagocitati con maestria all’interno di un meccanismo omologante dove la libertà di pensiero, di opinione, il cosiddetto politicamente scorretto sono censurati in partenza. Lo scrittore ad esempio rivendica, e paga di tasca propria, la libertà di affermare che l’esistenza di Trump-presidente non gli provoca conati di vomito, che lo sta a guardare: non l’ha votato, precisa, ma si rifiuta di accettare la messa al bando anche solo di un’opinione morbida che resti asettica in attesa degli eventi, in qualche modo anche in rispetto alla maggioranza, alla direzione comune intrapresa dai concittadini.
Nel libro, il desiderio di libertà di opinione di Ellis emerge forte e senza scrupoli soprattutto quando si tratta di esprimere un parere su film, registi, attori, scrittori e libri: sullo stato dell’arte, e nelle riflessioni sulla cultura dell'immagine, critiche e apprezzamenti sono entrambi a colori forti, vivi, per nulla grigi né bianchi.
Lo sguardo impietoso dello scrittore, che va a paio con un sorriso sarcastico ancora in parte divertito e ragazzino, è rivolto del resto anche qui prima di ogni altra cosa a se stesso e alle sue debolezze — quelle color bianco umano con cui tutti, volenti o nolenti, si convive.
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