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Rinascimento in bianco e nero

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Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

G8

L’arciProf

Impronta del sacerdozio, crisi vocazioni e altro. Intervista in enoteca all’arciprete abate di Santa Maria in Colle Don Andrea Guglielmi. “Se non fossi stato un sacerdote, avrei voluto essere un insegnante delle superiori”

Pubblicato il 06-10-2023
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Lui di vino se ne intende, essendo uno dei simboli della Santa Messa domenicale.
Questa volta, però, al termine dell’intervista, ne sorseggerà un calice in un contesto laico.
Don Andrea Guglielmi, arciprete abate di Santa Maria in Colle, è il nuovo ospite della nostra rubrica “Interviste in enoteca” presso l’enoteca Sant’Eusebio all’hotel Alla Corte di Sant’Eusebio di Bassano del Grappa.

Don Andrea Guglielmi (foto Alessandro Tich)

Originario di Cereda di Cornedo Vicentino, nella Valle dell’Agno, Don Andrea è stato consacrato prete il 4 giugno 2000 dal vescovo di Vicenza dell’epoca, mons. Pietro Nonis.
Sono trascorsi esattamente sette anni e quattro giorni da quando ha iniziato la sua missione sacerdotale a Bassano, il 2 ottobre 2016.
Dal punto di vista del servizio ecclesiastico, il suo ruolo ufficiale è quello di “parroco moderatore dell’Unità Pastorale Sinistra Brenta”, che comprende le quattro parrocchie di Santa Maria in Colle, San Vito, San Marco e San Leopoldo.
Ma per tutti noi è semplicemente “l’abate”.
Giochiamo oltretutto in famiglia perché Don Guglielmi è anche una firma di Bassanonet, con gli interventi che pubblica nella sua rubrica intitolata “Pro Vocazione”.
E in questa occasione cerco un po’ di Pro Vocarlo io.

Don Andrea: l’Italia è un Paese in cui per decenni le massime autorità a livello locale erano due: il sindaco e il parroco. Senza scomodare Don Camillo e Peppone, erano queste le due figure di riferimento. Chi è invece oggi un parroco, o più in generale un prete, nella società attuale?
È il pastore di più comunità cristiane, che deve fare i conti con una società che è cambiata e “cambiante”, continuamente in evoluzione. Papa Francesco parla non di epoca di cambiamenti, ma addirittura di cambiamento d’epoca. Quindi siamo dentro un cambiamento d’epoca e questa è la sfida più grande. Mentre ai tempi di Don Camillo l’epoca era stabile. La società era stabile ed era comunque una societas cristiana, pur con tutti i possibili scenari anche di scontro politico. Oggi chi è prete e chi è parroco è dentro a una società che non può più essere definita come una societas cristiana, ma è un contesto che presenta tanti elementi di pluralità. E quindi fa i conti con una società più complessa e più plurale dal punto di vista culturale, delle opzioni etiche e anche dal punto di vista delle scelte religiose e spirituali.

Anche spirituali?
Sì. Posso fare un esempio: non mi risulta che trenta, quaranta, cinquant’anni fa lo yoga fosse così praticato. Per fare solo un esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri.

Quindi un prete è solo un officiante o è qualcosa di più? Deve avere delle caratteristiche che vanno al di là del servizio che è tenuto a svolgere?
Innanzitutto, secondo me, un prete deve essere un uomo nella sua vita e anche, tra virgolette, nel “lavoro” che fa, si lascia ispirare dalla figura di Cristo. Il punto di riferimento di ogni prete non può che essere Gesù Cristo, con la sua storia, con le parole che ha pronunciato e le parabole che ha raccontato, le intenzioni che aveva, i sentimenti che provava, il suo modo di interagire col genere umano e il suo rapporto con il Padre, in particolare. Poi il prete è un uomo che vive accanto ad altri uomini e donne e che non può non interessarsi alle loro storie, ai loro problemi, alle loro difficoltà, ai loro sogni e alle vicende liete e tristi della loro vita. Perché fondamentalmente il ruolo di un prete è quello di essere un accompagnatore.

Non è però un segreto che oggi fare il prete è una scelta rara, rispetto a prima. Ci sono preti - ad esempio in Valbrenta, per restare in zona - che vanno a dire Messa in più parrocchie per garantire il servizio, altrimenti le Messe non ci sarebbero. Come sente lei il problema del calo delle vocazioni?
Anch’io vado a dire Messa in più parrocchie. È un problema abbastanza drammatico, per certi aspetti. Anche perché nelle nostre parrocchie bassanesi abbiamo vissuto anche diversi casi di preti giovani che hanno lasciato il ministero, oltre che di seminaristi o diaconi che non sono mai arrivati all’ordinazione. Tutto questo è dentro a un grande fenomeno di calo drastico delle vocazioni al diventare preti, dette anche vocazioni al presbiterato. Lo sento come un problema grave soprattutto perché non mi pare che, come comunità cristiane, stiamo adeguatamente facendo delle scelte opportune in una situazione in cui il clero viene meno. Siamo ancora un po’ prigionieri di un certo vecchio clericalismo che deriva da una storia che abbiamo vissuto in altre epoche. E ancora ci aspetteremmo quella storia lì, che prevedeva che ci fossero preti in ogni angolo. Se chi non è giovane pensa alla propria giovinezza o infanzia, ricorderà un numero esorbitante di preti. Non siamo riusciti a far sì che questo calo delle vocazioni diventasse anche l’occasione per fare delle scelte che il Concilio Vaticano II aveva profeticamente indovinato. E cioè che la comunità cristiana non è “i preti” ma è fatta di uomini e donne, di età e di condizioni diverse, e la comunità funziona, come dice San Paolo, “come un corpo organico che ha tante membra e tutte sono utili”.

Ogni persona ha il suo stile, qualunque cosa faccia. Lei che “impronta” ha voluto dare al suo sacerdozio?
Questa è una bellissima domanda, che richiederebbe una bellissima risposta. Beh, io sono stato formato, credo, molto di più dagli anni che ho vissuto in Azione Cattolica come assistente diocesano, prevalentemente tra i giovani ma non esclusivamente, che non addirittura dal seminario stesso. E l’Azione Cattolica mi ha insegnato una cosa che ritengo fondamentale e che cerco di portare avanti il più possibile: fare in modo che nelle comunità cristiane ci siano processi di crescita e processi anche di riflessione, di analisi e di scelte che non sono dittatoriali e non sono clericali, ma sono presi insieme in maniera “sinodale”, come direbbe Papa Francesco. Io questa “sinodalità” l’avevo vissuta moltissimo in Azione Cattolica, che essendo un’associazione laicale mi ha educato a vivere dei “cammini di discernimento” che sono fatti insieme. Io cerco di dare questa impronta al mio essere parroco. Quindi di trovare tutti gli ambiti possibili per cui si ragiona insieme, si valuta insieme, si elaborano delle scelte insieme e si cammina insieme.

Qual è invece l’impronta del suo ministero più legata alla sua persona e anche ai suoi interessi personali?
Non sempre attraverso scelte che ho fatto io, ma sicuramente a partire da un’indole e da attitudini che ho e anche dagli incontri fortuiti e fortunati che la vita ti consente di avere, di fatto nel mio essere prete ho sviluppato moltissimo una passione per alcune forme di arte.
In primis la musica, perché suono anche la chitarra, di mio, dal 1985. Poi sono arrivati anche il cinema e una sorta di attenzione, naturale e anche indotta, alla pittura. Tutte queste realtà si possono connettere con i testi delle Sante Scritture. E io sono convinto che le interazioni tra pittura, cinema e musica con le Sante Scritture aprano scenari in prospettive di senso che possono diventare estremamente interessanti non solo per chi è un credente praticante, ma anche per chi ha semplicemente una vivacità culturale interiore. Mi è capitato a più livelli di spendermi nell’approfondire queste connessioni tra i patrimoni della fede cristiana e l’arte, che può essere anche arte non cristiana, ma può essere l’arte contemporanea, che a me intriga tantissimo.

Suonando la chitarra, lei dunque è un prete rock?
No. Sono un prete che ama il rock, ma non credo di essere un prete tanto rock.

Come trova Bassano, come comunità di fedeli e non solo?
Lo trovo un contesto ricco, complesso, dal mio punto di vista anche molto interessante. Culturalmente lo trovo un contesto più vivace rispetto ad altri, come quello della vallata in cui sono nato e da cui provengo. Se devo essere sincero, preferisco Bassano anche a Vicenza. Perché lo trovo comunque un territorio effervescente. Lo trovo anche un contesto carico di tanti protagonismi, e anche personalismi, non sempre facilmente riconciliabili, ricomponibili, armonizzabili. Ma questo è un altro segnale che denota che si tratta di un territorio vivo. La domanda che mi pongo è: “Bassano è viva e continuerà ad essere viva, o è viva perché vive di rendita, di qualcosa che è stato seminato il altre epoche?”. Questa è una domanda a cui non riesco a dare risposta. Cioè: Bassano è viva perché appunto vive di rendita e quindi è una sorta di motore destinato a spegnersi oppure continuerà a rigenerarsi? Vedo comunque, dal punto di vista giovanile e di chi lavora con i giovani, dinamiche interessanti che lasciano intravedere una prospettiva.

Se Don Andrea non fosse diventato un sacerdote, che cosa gli sarebbe piaciuto fare?
Senza ombra di dubbio, l’insegnante delle superiori.

Perché proprio le superiori?
Perché è una fascia di età che io amo profondamente e di fatto ci ho anche lavorato. La mia storia vocazionale mi ha portato a lavorare molto con quella fascia lì. Adoro quel periodo, io stesso l’ho vissuto a suo tempo come un momento molto dinamico e effervescente. Io di quell’età, delle superiori, ho bei ricordi. Anche ricordi di crisi, che comunque fanno parte della bellezza della vita. Dico che averi fatto l’insegnante perché sarei certamente andato a studiare Lettere, che era la mia passione.

Come sarebbe stato il “prof” Andrea? Che tipo di “prof”?
Credo che alcune cose che ho vissuto nel mio essere prete le avrei vissute anche lì. Una caratteristica che non ho detto prima è che una continuità che vedo dal ministero che esercitavo nella pastorale giovanile nell’Azione Cattolica prima e il ministero che esercito da parroco adesso qui a Bassano, è che ci sono delle persone che chiedono ascolto, a livello personale. Questa è una dimensione che mi piace e che mi piacerebbe garantire ancora di più, anche se purtroppo gli impegni non mi consentono di essere sempre pronto ad ascoltare. Credo che sarei stato un insegnante capace di ascoltare gli studenti con cui avrei interagito. E penso che avrei vissuto delle relazioni interpersonali costruttive e sane. Poi avrei cercato di condividere delle passioni come deve fare un insegnante. In fondo, non è che un prete queste cose non le viva. Perché sempre si parla della “parola”, anche se in accezioni diverse. C’è una Parola con la P maiuscola per chi ha fede, ma c’è anche la parola in quanto tale che va trasmessa. Avrei comunque esercitato una sorta di “ministero della parola” anche se fossi stato un insegnante ateo. Poi credo che come insegnante mi sarebbe piaciuto un qualcosa che comunque mi è sempre piaciuto e cioè l’interazione tra le discipline. Quindi mettere insieme ad esempio la filosofia, la storia, l’arte, la letteratura, la religione stessa. Quando tu trovi insegnanti che ti aiutano a creare una sintesi, quegli insegnanti lì fanno la differenza. E quando ho fatto io il liceo, in seminario a Vicenza, alcuni insegnanti capaci di creare queste connessioni hanno fatto la differenza anche dentro di me.

L’accostamento del vino

E siccome anche le “Interviste in enoteca”, nel loro piccolo, hanno il loro rito, a intervista conclusa arriva l’immancabile momento dell’accostamento di un particolare vino al personaggio intervistato, in base alle sue caratteristiche, da parte del patron dell’enoteca Sant’Eusebio Roberto Astuni.
“Don Andrea - spiega Astuni - è una persona brillante, legata al territorio, completa dalla A alla Z. Quindi dalla A di Andrea, arriviamo alla Z di Zonta che c’entra con il vino da abbinare, che è il Cabernet di Zonta. È un rosso legato al territorio, si abbina brillantemente alla cucina locale e, dulcis in fundo, il vigneto si chiama Due Santi. Così con Don Andrea giochiamo in casa!”.
E col brindisi col Don, con il vino prescelto in suo onore, si conclude anche questa puntata del canale G8, leggasi “Gotto”. Grazie di tutto, arciProf.

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