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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

A tu per tu con Marco Malvaldi

Intervista allo scrittore toscano ospite del terzo appuntamento con gli autori al Piccolo Festival della Letteratura

Pubblicato il 26-06-2011
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Protagonista del terzo appuntamento bassanese al Piccolo Festival della Letteratura è stato Marco Malvaldi. In una conversazione allegra tra il conviviale e il goliardico, l’autore ha dialogato a Palazzo Bonaguro con Tobia Fiorese e Andrea Marchi, di Palomar, e ha presentato il suo ultimo libro intitolato Odore di chiuso.

Quello dell’Artusi è un libro che ha regnato e regna in tante cucine, per chi non l’avesse letto accompagna la preparazione delle pietanze con racconti, aneddoti, perle di saggezza, è un manuale che apparecchia la tavola con piatti di cultura e arte non solo gastronomica più che un vademecum di consigli per le cuoche. Come mai hai scelto lui per il ruolo di personaggio chiave del tuo libro? E’ forse un omaggio anche un po’irriverente

Marco Malvaldi


Nessuna irriverenza, e tanta simpatia. Ho un profondo rispetto per l’Artusi, un personaggio davvero illuminato per la sua epoca: conosceva le lingue, era un uomo di cultura, è diventato famoso per il suo libro di cucina, il primo scritto in italiano, un manuale che ha davvero unificato l’Italia, ma ha pubblicato anche una biografia del Foscolo ed una critica a 30 lettere del Giusti, e qui ad esempio il suo trattato inizia così “Lettore, Dio ti salvi dagli sbadigli”, e siamo nell’Ottocento, si può non apprezzare questa intelligenza condita di ironia? Mi sono divertito a infilarlo in situazioni imbarazzanti, questo sì, come a farne la preda dell’inseguimento della signorina Cosima Bonaiuti Ferro, una zitella appassita e sognante, o oggetto dei lazzi dei due figli del barone, ma ho affidato a lui la chiave di risoluzione del giallo, al cuoco letterato e alla sua intelligenza, resa ancora più rara dal sense of humor di cui era dotato.

Tu sei un chimico, siamo nell’epoca dei Ris e dell’indagine quasi totalmente versata alla ricerca scientifica più che a quella psicologica alla Nero Wolf o alla Maigret. Hai scelto di ambientare un giallo in un’epoca dove non c’erano certi mezzi, però quell’odore di chiuso, senza svelare l’esito del giallo, è determinante per la risoluzione dell’omicidio

Senza svelare la trama, l’idea di quel primo indizio a cui ti riferisci e i suggerimenti annessi li ho presi a prestito proprio da un libro dell’Artusi, e nel mio di libro gli restituisco il favore dando proprio a lui, tra tutti gli ospiti e gli abitanti del castello di Roccapendente, il privilegio di cogliere il primo elemento che fa pensare che quello che è occorso al maggiordomo Teodoro non è un accidente naturale, e lì mi sono divertito a infrangere uno schema classico del giallo, l’assassino di sicuro non è il maggiordomo. Ci sono poi altri due aspetti da sottolineare: l’odore di chiuso che dà il titolo al libro, che invoglia ad aprire le finestre per far entrare aria fresca, e nuova, è anche l’odore degli ambienti chiusi alla modernità, e all’attualità, può esserlo quello di un clan di nobili in decadenza come la famiglia del castello, ma anche, trasposto, quello di altri “baroni”, ad esempio quelli che abitano certe Università italiane; c’è poi da analizzare il paradosso della fede nell’infallibilità delle tecniche scientifiche che appartiene tutto al lettore-telespettatore moderno, si crede nella certezza assoluta delle indagini alla C.S.I., ma in realtà le prove scientifiche, quelle date da tecniche di ricerche raffinate, sono comunque sempre interpretabili, hanno la necessità di passare al vaglio dell’uomo. Mi è piaciuto tracciare il personaggio del Delegato Artistico che si occupa delle indagini, credo che me lo porterò dietro in un prossimo libro.

Il linguaggio da fine ‘800, lo dici tu stesso a un certo punto del romanzo, ti va stretto, anche prima tra le righe si ritrova spesso una sorta di sbottare nella voce narrante. La tua scrittura si è servita del passato ma è in torsione, tende naturalmente ad attualizzarlo

Ho voluto prima di tutto scrivere un giallo divertente. Non mi interessava proporre un’imitazione dello stile ‘800, né essere propriamente perfetto nella ricostruzione delle atmosfere (mi hanno fatto notare subito, a tre giorni della pubblicazione del libro, che il “tiramisù” all’epoca era un cocktail non un dolce). Il linguaggio che utilizzo sfugge spesso dai canoni, e poi la voce narrante lo dichiara proprio che è stufa e che vorrebbe buttare alle ortiche la cuffia con le crinoline. Questo uscire dai cliché mi è servito per aumentare l’effetto comico, esce meglio dal contrasto con il garbo la battuta o la boutade che rende divertente il racconto, come è stata una scelta l’attribuire tutto quel colore ad alcuni personaggi, Lapo e Gaddo ad esempio (e i nomi che ho scelto sono tutto un programma). Ho salvato le donne, non tutte, Cecilia soprattutto, anche in risposta al rilievo che mi è stato fatto riguardo alla trilogia del BarLume di non dare alle donne una giusta attenzione, ma mi sono difeso: quante donne vedete voi nei bar di vecchietti a giocare a carte?

Guardando al futuro della scrittura e del libro, ti chiedo una previsione: progettare una narrazione per un eBook invece che per un libro di carta avrà qualche effetto nuovo sullo stile della scrittura?

Non credo, non riguardo allo stile dello scrivere. Certo, l’oggetto in sé offre delle possibilità notevoli: un testo scritto per eBook può contenere tutta una serie di informazioni e di rimandi (immagini, riferimenti a pdf, filmati… ) che il libro di carta non può offrire, e questa potenzialità è indubbiamente interessante, ma il nuovo dispositivo non sostituirà il libro tradizionale. Il libro non è solo un testo, è anch’esso oggetto, con un suo peso,una sua consistenza sensoriale, un suo stare nello spazio. La lettura su uno schermo poi è proprio tecnicamente diversa da quella su una pagina di carta: nel libro tradizionale si procede con sequenzialità, riga dopo riga, sullo schermo la vista ha la tendenza a mettere in atto dei meccanismi di percezione più globale, tende a venire colpita, a tenere presenti, e quindi a leggere, le parole presenti nella schermata appartenenti a più parti del testo, è proprio una lettura diversa. Senza dubbio l’innovazione è interessante, ma credo che continuerò a scrivere, soprattutto i gialli, per libri di carta.

Tu nel romanzo hai ricordato “nell'Ottocento, la gente era famosa per ciò che faceva e molto spesso se ne ignoravano le fattezze”. Quale contraddizione con l’attuale civiltà votata all’apparire! Uno spostamento d’asse decadente o interessante?

Direi atroce. La fama come la si intende spesso nel mondo odierno, non come riconoscimento di un valore ma come conseguenza dell’apparire, non può che essere un indice di decadenza. L’essere famosi non è tutt’oro, e cambia la vita, anch’io nel mio piccolo sono diventato riconoscibile e questo ha modificato necessariamente alcuni miei comportamenti e mi ha privato di una parte del tempo di cui prima potevo disporre liberamente, ti trovi comunque a non interagire con la realtà nello stesso modo di prima, è un inanellarsi di variazioni subdole. Un altro aspetto collegato al tipo di fama che offre la società odierna dell’apparire è la possibilità diventare all’improvviso ricchi, e questo sì è un fattore che indubbiamente cambia la vita.

Il Piccolo Festival ha proposto quest’anno un esercizio di memoria storica letteraria, e invitato i lettori a racchiudere in un elenco i libri che ci hanno resi più italiani. Qualche titolo che aiuti a suddividere in capitoli il 150°, un contributo per il 15x10?

Nella mia lista ideale metto Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa; Mondo piccolo di Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo e Peppone, ricordando la sua capacità di dipingere con semplicità, con la sintesi di poche parole efficaci le situazioni umane; La stanza del vescovo di Piero Chiara; Il barone rampante di Italo Calvino, che rappresenta il mio primo incontro di ragazzino con un libro “vero”; del mio autore preferito, Primo Levi, scelgo Il sistema periodico che giudico il libro perfetto; Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, un mio compaesano, che qui racconta la bella volontà di liberarsi di un potere soggiogante anche se non si è eroi; il libro che mi ha convinto a provare a scrivere è Il bar sotto il mare una raccolta di racconti di Stefano Benni; come esempio di come funziona a volte l’editoria italiana inserisco La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, un libro pubblicato quasi per caso dopo sei anni che stava a prendere polvere tra i manoscritti; e infine A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia.

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