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Il mondo che vorrei

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Il mondo che vorrei

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Libri

In Modalità lettura: tra le pagine di Black Tulips

Per la nostra rubrica da lettori: una recensione del romanzo postumo di Vitaliano Trevisan

Pubblicato il 12-10-2022
Visto 5.070 volte

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Il mondo che vorrei

Saltiamo a piè pari le questioni sulla correttezza del pubblicare o meno l’ultima opera incompleta di uno scrittore morto e sull’editing presente o assente nel testo: Black Tulips, il libro postumo di Vitaliano Trevisan consegnato ai lettori da Einaudi è questo e la piccola lista di capitoli non presenti come titoli di coda ultima il quadro, se dovesse interessare.
Trevisan aveva annunciato sul suo profilo Facebook circa un anno fa, lo scorso ottobre, che stava “chiudendo” il libro; aveva postato anche una foto che lo mostrava smagrito e teso, dichiarando in modo inequivocabile la fatica che gli era costata ultimare l’opera e consegnarla alla casa editrice e anche la fragilità del suo stato di salute in quei giorni. Si era anche in più occasioni lamentato in precedenza e successivamente, con rabbia e sofferenza, che i suoi libri, Works escluso, non si trovassero da tempo nelle librerie e neanche su ordinazione: anche questo è un fattore non ininfluente da considerare, un aspetto che passa in sordina alle commemorazioni, spesso tese a ricordare quanto fosse strano ma in fondo simpatico e di sicuro bravo ma in fondo insicuro, dimenticando che il tema del lavoro e della sua retribuzione, l’architettura malata del commercio e le difficoltà economiche delle persone sono sempre stati centrali nell’opera di Trevisan, nella narrativa come a teatro.
Se avesse pensato per il titolo a un richiamo al romanzo quasi omonimo di Dumas padre non è possibile chiederglielo — quello che parla del caso tutto olandese di bolla speculativa legato a produzione e vendita di tulipani e di “commercio del vento” — ma certo l’assonanza, anche chiuso il libro dopo p. 221, è forte.

Vitaliano Trevisan

Il quaderno nigeriano (un quaderno nigeriano, così lui) si apre con una dichiarazione che è una battuta del tutto nel suo stile: «Al soggetto si addice il Bianco e il Nero». Bianco e nero è anche il panorama in cui si muove uno scrittore, è l’associazione non è casuale.
Il testo si sviluppa in frantumi e frammenti, o meglio, in “figure” che affiorano alla memoria dell’autore provenienti in gran parte da un viaggio da avventurieri con soggiorno di una quarantina di giorni, da marzo a maggio, in Nigeria compiuto una ventina di anni prima.
La memoria mente, si sa, quindi per districarsi tra i suoi meandri «l’unica cosa che posso fare è scrivere, e leggere» afferma Trevisan, e sono davvero tante le note di suo pugno che invitano alla lettura per approfondire, per sviluppare e ampliare, come si trattasse di un’opera architettonica di cui non si indovina bene il disegno ma che ha alla base un cantiere costruito in sicurezza, solido, esemplare. Da fondo pagina, a volte le note salgono a togliere spazio al testo, e aprono scorci, come li chiama l’autore, sulle tematiche di cui si parla, su vicende della storia personale del narratore, su riflessioni illuminate e taglienti che escono dalla soggettiva analizzando in particolare le tematiche del sesso e delle relazioni di potere tra gli uomini e che riguardano il nostro cosiddetto vivere civile.
Alcune note brevi annunciano l’uscita nel 2021 o nel 2022 di altri libri, ancora in embrione ma già definiti nella mente con tanto di titolo: To whom it may concern forse il più bello, che non leggeremo.
L’idea, o meglio la necessità del viaggio nel paesaggio a tratti prospettico, a tratti esplorato con moto circolare, a passo umano, che costituisce la realtà raccontata nel libro è nata dalle relazioni con prostitute e ex prostitute nigeriane e narrato dall’oyibo (l’uomo bianco marchiato da un razzismo al contrario rispetto a quello che conosciamo noi Europei) che le ha frequentate. Ade (una Giulietta mutilata dalla clitoridectomia) e le sue colleghe parlano nel loro mondo una lingua cruda e schietta di quelle che affascina e spesso riesce a zittire anche i pensieri del narratore, ma soprattutto gli fanno intravvedere un mondo di sicuro non meraviglioso che però ammalia, dove si riflettono o per meglio dire si compiono alla luce del sole, realizzandosi in un ingorgo che crea un conglomerato dall’aspetto del tutto edile-stradale ma in vero culturale, le peggiori aberrazioni nate dal progresso della civiltà umana.
Per una sintesi alquanto efficace dello stato/Stato frammentario della Nigeria, il cui governo è stato definito una cleptocrazia, Trevisan che era un batterista (ha studiato batteria jazz ed era un grande appassionato di musica funky) a pag. 36 consiglia l’ascolto di Another Story, Burna Boy feat M.anifest.
L’amore per l’Africa e le sue donne, ha raccontato, è nato da piccolo, grazie a un regalo dello zio Lorenzo che di passaggio gli ha lasciato una statuina raffigurante una bellissima donna forse Yoruba, che Trevisan da allora ha sempre tenuto con sé. Le donne che esercitavano “la professione” che parlano nel libro sono tutte donne forti, determinate, del tutto terrene, lontane dai fantasmi di altre donne citate che hanno invece fatto di una mimata debolezza la loro arte.
"Stigma" è una parola che compare molte volte nel libro, scelta anche per connotare una serie precisa di capitoli: stigmatizzato è il lavoro della puttana; porta addosso uno stigma chi intrattiene rapporti con le prostitute in quanto è imputabile di sfruttamento o di favoreggiamento, quale che sia il tipo di relazione umana che intrattiene con loro; stigmatizzante è la nozione di normalità e di a-normalità; non c’è scritto, ma il marchio d’infamia colpisce duro anche chi entra e esce dai reparti di psichiatria per sua colpevole debolezza. Lo scrittore parla in alcuni passi della sua tendenza depressiva, dei ricorrenti disturbi nervosi, dell’angoscia unita a vergogna che gli faceva provare la comparsa repentina ma mai abbastanza del tremore essenziale, annunciante il pericolo di un crollo.
Un cenno particolare va alla scelta di non tradurre parte delle espressioni e anche dei testi soprattutto contenuti in nota lasciati in Inglese: la conoscenza fluida dell’Inglese, e in particolar modo la pratica di quel tipo di lingua franca meticciata chiamata Pidgin-English che è utilizzata in Nigeria, è stata il veicolo, il vettore che ha consentito all’oyibo di tessere relazioni umane con le "ragazze” e poi con le persone incontrate a Lagos, l’uomo che parla ne era orgoglioso e grato: “tradire” con una traduzione di ritorno all’Italiano non avrebbe avuto senso. Per le traduzioni dei brani che potrebbero interessare, appunto, ognuno per sé.
Forse dopo l’uscita di quest’opera, l’etichetta di scrittore del Nord-Est che ha accompagnato a lungo il lavoro di Vitaliano Trevisan sbiadirà finalmente un po’, perché sarebbe il caso. Vicenza c’è, con il suo quadrilatero del degrado, e c’è anche Rovigo, con il delta che richiama in piccolo quello nigeriano, città dì e notte molto diverse, come tutte le altre città. Certo, nulla a che fare con la baraccopoli di Makoko, la “Venezia d’Africa”, ma il fatto è che ovunque tutto ubbidisce al principio che “si crea domanda saturando l’offerta”, motore del centro commerciale di qualsivoglia genere, da quello che prosperava sulla cosiddetta SS11 che collega Vicenza a Verona fino ai traffici affaristici che hanno portato all’obbrobrio della nuova megalopoli nigeriana per ricchi da 249 milioni di dollari rubata all’oceano.
Se come ha scritto «per difendersi da se stesso e dal mondo, è nella trasparenza che si è sempre ritenuto in equilibrio» — e non sempre, comunque, ha aggiunto — il vizio di scomparire di Trevisan qui appare poco: deve essere stato faticoso e da lettori gliene siamo grati. Come si sente meno del solito la bella musica imparata dai suoi maestri, non ha temuto di metterla a tacere o di “sporcarla” in diversi passi, soprattutto nei dintorni della scena recitata dello scontro con gli Okaba Boys, dove il narratore sembra lallare, facendo propria una costruzione del linguaggio straniera entrata a contaminare, rendendoli costellazioni metamorfiche, anche i pensieri.
Il libro è molto visivo — in tanti, oltre ai libri, ricorderanno le fotografie che scattava Trevisan, gli scorci particolari quasi sempre affettuosi che coglieva il suo sguardo — in diversi punti è anche documentaristico e cinematografico, nessuna sorpresa se diventasse materiale da film. Che ci sia anche la propensione al disegno, e la passione-amore per l’architettura, è evidente nelle descrizioni di luoghi e oggetti e in alcune “Avvertenze” disseminate nel testo, che l’autore avrebbe desiderato avere la forma di bugiardini infilati a caso tra le pagine e che invece appaiono mimetiche e colloquiali, come abitanti di un boudoir. Sempre questioni di prospettive.
“Non posso non ricordare che la radice della prospettiva è nel teatro: si veda: Agatarco (scenografo di Eschilo), Commentarius” (Vitaliano Trevisan)

Black Tulips, Vitaliano Trevisan, Einaudi 2022, pagine 232, 17 euro.

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