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Don Andrea GuglielmiDon Andrea Guglielmi
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Bassanonet.it

Pro Vocazione

Paolo Rossi e il verbo credere

Se tornassimo anche noi a coniugare il verbo credere nelle trame di gioco delle nostre biografie attuali, un nuovo miracolo potrebbe irrompere improvviso

Pubblicato il 27-04-2021
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Elena Pavan

Porgo ai lettori le mie scuse preliminari. Per due ragioni. L’articolo che segue è fuori stagione; emulando il tempismo del grande Pablito poteva uscire in dicembre, in sincronia con la sua scomparsa. Chiedo venia per un motivo più complesso. Spagna ’82, mondiali di calcio. Il 5 luglio la nazionale italiana rimpatriava il Brasile di Zico, con una tripletta di Paolo Rossi. Ciò che accadde in quel giorno merita una qualifica precisa: “in-credibile”, negazione del verbo “credere”; Rossi esce improvvisamente dal grande letargo e la squadra più forte viene eliminata dagli azzurri: dubito che il popolo italiano osasse... ‘crederci’. Avevo otto anni. Il 5 luglio 1982 io ho odiato Paolo Rossi e porterò con me questa vergogna, tatuata nell’animo; ero troppo esaltato dalle geometrie spettacolari e dai colpi di genio dei fuoriclasse verde-oro: il mio sogno infantile era il trionfo planetario di quell’intreccio di talenti: Zico, Falcão, Cerezo, Sòcrates, Júnior, Éder...
A questo punto insultarmi sarebbe un vostro diritto, come fecero a suo tempo familiari e amici.
Ma che ne sapevo io, a otto anni, dello stillicidio quotidiano inflitto all’allenatore friulano, Enzo Bearzot? Ridicolizzato per troppe settimane dalla stampa e dall’opinione pubblica. La ragione principale di questa antipatia diffusa è certamente nota: continuare a credere in modo ostinato e assurdo in quel calciatore, entrato due anni prima nella pagina più squallida dello sport italiano, il calcioscommesse, tornato in campo da poco e in condizioni psico-fisiche ancora precarie. Lo dimostrano le prestazioni deludenti, nella prima fase del torneo. Ma il giorno della risurrezione è per natura un evento imprevedibile: 5 luglio 1982, Barcellona, stadio Sarriá. Italia 3, Brasile 2.

Il grande Pablito

Chapeau al “vecio”. Era chiamato così il nostro commissario tecnico. Lui non ha mai smesso di crederci. E Il centravanti finito diventa capocannoniere dei mondiali e pallone d’oro. Un miracolo.

Ma perché siamo ancora qui a perder tempo? Perché dovremmo continuare a raccontarci questa bella favola, nel tornante della storia che impone a tutti una sfida epocale, lontana anni luce dalla leggerezza del calcio?

A distanza di quasi quarant’anni, il rapporto che ha legato Enzo e Paolo ci consegna una lezione di vita davvero imperdibile. Se tornassimo anche noi a coniugare il verbo “credere” nelle trame di gioco delle nostre biografie attuali, affaticate e spente, un nuovo miracolo potrebbe irrompere improvviso, come la risurrezione di un crocifisso, il rilancio di un attaccante, il riscatto di un popolo, la rinascita di una città.
È pur sempre una questione di participi: presente e passato. Ogni persona avverte il bisogno di sentirsi “creduta” per avere lo spunto di aggiornarsi “credente”.
Ci vorrebbe il coraggio di tenere, dietro le mascherine, la faccia tosta del ‘vecio’ Bearzot, il quale aveva capito che non serve a nulla farsi condizionare dalla massa, o lasciarsi intimidire da qualche leone da tastiera. Pensa per un attimo a tutta quella gente che ogni giorno attraversa insieme a te le coordinate spazio-temporali: proprio lì varrebbe la pena rischiare la fiducia.

Traduco: non avere la fretta di considerare l’altro un nemico da abbattere o un prodotto da scartare. L’allenatore ha avuto il merito di tenerlo dentro, quel numero 20, in campo e nella squadra. Traduco meglio: scambiarsi una parola in più e dedicarsi un po’ di tempo, anche quando si è avversari politici, quando l’educazione di un ragazzo difficile sembra una partita già persa in partenza, un legame importante si logora, un ambiente lavorativo diventa asfissiante.
Mi rendo perfettamente conto che non è ragionevole credere a tutto e a tutti; è fuori discussione che il tempo è denaro. Ma se io, tu, lui, lei... siamo riusciti finora a fare qualcosa di buono nella partita complessa delle nostre esistenze è perché qualcuno ha creduto in noi e ci ha dedicato porzioni significative del suo tempo prezioso.
Suppongo non esista una strada migliore per uscire dal tunnel: ostinarci a credere nel genere umano, come fece quel tale, duemila anni fa, che dedicò i suoi ultimi respiri a chi gli era accanto, crocifissori e crocifissi, nel tentativo di aprire a tutti le porte del paradiso. Paragonarlo a Enzo Bearzot non ha molto senso; trovo carina l’idea di ricordarlo come un buon “allenatore”.

Grazie a lui molta gente che sembrava sconfitta ha ricominciato a ... “crederci”.

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