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Invecchiamento e infiammazioni non vanno sempre a braccetto
Per ricordare l’Olocausto ci serviamo di parole, siano queste state pronunciate dai sopravvissuti, oppure sentite da chi la storia ha cercato di ricostruirla. Le parole rendono trasmissibili la conoscenza e ci hanno restituito l’immagine dell’orrore dei campi di concentramento e la brutalità del nazismo.
Si resta senza fiato nell’osservare le foto dei resti di un campo di concentramento, degli oggetti accumulati nelle stanze dei lager, delle ciminiere ancora ritte, a richiamare i forni accesi, che producevano odori acri, per le carni bruciate. I buchi nei soffitti per le docce avvelenate e le baracche ancora disposte in fila come in fila stavano i deportati, davanti le guardie naziste, a ogni fine giornata.
Il verbo ricordare significa “avere presente nella memoria”. La prima domanda che ci poniamo riguarda questo. Siamo certi che il ricordo non sia relegato a un’emozione di un giorno? Provare dispiacere e sgomento per 24 ore, non è come aver impresso nella memoria ciò che è accaduto. Seppur si cerchi di trasmettere in ogni modo la paura, la ripugnanza, l’orrore della deportazione. E lo facciamo da ventiquattro anni, ogni 27 gennaio. Giorno scelto perché l’Armata Rossa liberò il campo di concentramento ad Auschwitz.

Negli anni della realtà simulata c’è chi scommette sull’intelligenza artificiale per creare immagini video basandosi sulle parole di diciannove reduci della Shoah. L’associazione israeliana si chiama Chasdei Naomi. Siamo una generazione bulimica di immagini e vogliamo vedere, poco ascoltare.
A che cosa serve ricordare?
Non si ricorda solo per commemorare milioni di persone uccise senza pietà. La Giornata della Memoria insegna a combattere le discriminazioni nei confronti di chi è diverso da noi. Chi avrebbe voluto dimenticare sono i sopravvissuti dell’Olocausto, costretti a testimoniare come si viveva e moriva in un campo di sterminio. Eppure, noi li abbiamo costretti a raccontarci le loro storie. Siamo forse stati spietati come gli aguzzini? Questa domanda la gireremo al professor Loris Giuriatti.
Il 26 gennaio ha avuto luogo una conferenza in streaming a partire dalle ore 10.00 per due ore circa, dal titolo “La cenere che diventa pietra” sul tema della Shoah.
Oltre un migliaio di studenti di diverse scuole medie e superiori di Bassano hanno accettato l’invito indetto dall’assessore all’istruzione Mariano Scotton. A tenere la conferenza è stato lo storico e professore Loris Giuriatti che abbiamo intervistato.
Professor Giuriatti, ricordare la Giornata della Memoria è un dovere umano, non solo un tempo piccolo da affibbiare sul calendario. Come si racconta agli studenti l’Olocausto?
È la stessa domanda che mi sono posto. Non è facile, però penso che il modo migliore sia partire da quello che c’è stato prima dell’Olocausto. La storia nella storia parte in una villa sulla sponda del lago di Wannsee, a pochi chilometri da Berlino, una bellissima località turistica molto frequentata dai berlinesi in estate. In gran segreto si riuniscono i personaggi di spicco del partito nazista. L’ordine del giorno era “Il problema ebraico e la sua definitiva soluzione, la soluzione finale”. Questo non è l’inizio, bensì il proseguo di una serie di eventi accaduti negli anni precedenti, che cambieranno il volto della Germania e del mondo intero. I ragazzi devono comprendere le condizioni storiche di quel periodo, non solo i fatti in sé.
Secondo lei, che cosa è importante venga impresso nella memoria dei ragazzi?
Capire che l’Olocausto non è successo a causa di una persona, ma per una miriade di persone che hanno accettato e condiviso il pensiero proposto da Hitler. Dopo la liberazione di Auschwitz i russi hanno costretto gli abitanti dei villaggi vicini ad attraversare i campi di concentramento. Non era possibile che non avessero notato nulla, odorato nulla. Questo ci fa capire quanto l’indifferenza abbia contribuito all’orrore subito dai deportati. L’obbligo che abbiamo è di portarli a non fare “spallucce” di fronte a ogni violenza.
Discriminazioni e diversità sono temi caldi che non cennano a raffreddarsi. È di domenica 21 gennaio la notizia che vede coinvolto il portiere del Milan, Mike Maignan, vittima di cori razzisti sul campo da calcio di Udine. Sono argomenti che trattate in classe?
Quello che ha fatto il portiere è stato un atto coraggioso, è uscito dal campo e ha creato il caso. Non è cosa da tutti. Non ha accettato e ha smosso le coscienze. Ne parliamo in classe, certo.
Torniamo alla prima domanda. Costringere i sopravvissuti a ricordare ci ha resi altrettanto aguzzini?
Questa domanda è davvero molto difficile. Mi auguro di no. Ci sono sopravvissute che hanno raccontato la loro storia molto tempo dopo l’accaduto, questo la dice lunga. Quando si chiedeva loro una spiegazione rispondevano che facevano ancora fatica a parlare. Si sentivano minacciate dai negazionisti, dai neonazisti, da quelle persone che conoscono male la storia. Sto lavorando sulla strage di Bologna e il paradosso è che chi l’ha vissuta, dice proprio che chi ha commesso il reato è stato meno maltrattato di chi l’ha subito. Quello che volevano fare era dimenticare. Invece la stampa, i processi continuavano a chiedere di ricordare. E questo è uno smacco.
Grazie, le auguriamo un buon lavoro.
Chiudiamo con un estratto di una sopravvissuta a questo dramma, Edith Bruck
“Noi sopravvissuti alla Shoah siamo inchiodati: vorremmo liberarci dal peso insopportabile di ciò che è stato e invece siamo costretti a riviverlo ogni volta. Delegati a testimoniare da chi avrebbe avuto il dovere di evitarcelo: quest’Europa che cancella i suoi sensi di colpa per lo sterminio degli ebrei non parlandone, e scaricando su noi vittime le responsabilità e il dolore della memoria. Una vera follia”.
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