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Alessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it
Special report
Humanum Est
Solidarietà senza confini, nel vero senso della parola. Da Bassano del Grappa a Trieste per portare cibo, medicine e biancheria ai migranti arrivati a piedi lungo la rotta balcanica, assistiti quotidianamente dall’ODV Linea d’Ombra
Pubblicato il 13-06-2025
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Mercoledì 11 giugno, ore 15.30, via Sant’Antonio da Padova, quartiere San Fortunato, Bassano del Grappa.
Tre macchine, tra i cui passeggeri ci sono anch’io, prendono la rotta verso Est.
Destinazione: Trieste. Un Est a noi prossimo, per incontrare persone arrivate da un Est remoto.

Foto Alessandro Tich
I bagagliai delle auto sono carichi di cibo: frutta, verdura, dolci, panini, torte salate, riso cotto in giornata. Oltre ai piatti e alle stoviglie di plastica per trasformare quel cibo in una cena e a due tavoli e una tovaglia per servirlo come si deve.
E ancora medicinali, biancheria intima, calzini. Sono quelli che vengono indicati come generi di prima necessità, destinati a chi ha necessità praticamente di tutto.
Sono i migranti, provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, arrivati a piedi in Italia lungo la rotta balcanica: un percorso variabile, affrontato tra insidie e violenze, che dalla Turchia - solitamente attraverso Bulgaria, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Slovenia - li porta ad approdare, almeno quelli che lungo la rotta non sono morti o scomparsi, nella città della pinza e della bora.
Non è il loro approdo definitivo: molti vogliono continuare il viaggio fino al Nord Europa, soprattutto in Germania, per altri si profila un destino di rifugiati in Italia.
Non sono clandestini, nel senso di stranieri sconosciuti alle autorità italiane.
La loro permanenza più o meno lunga nel nostro Paese comincia con l’identificazione e registrazione alla Questura di Trieste a cui, dopo alcune settimane, segue la consegna delle carte per chiedere asilo politico o protezione internazionale.
Nel frattempo, di notte dormono laddove gli è consentito dormire, in particolare in due ostelli messi a disposizione da mons. Enrico Trevisi, da due anni vescovo della Diocesi di Trieste, il quale - come mi dicono i triestini - “ha preso a cuore la questione”.
E quando cala la sera, dalle 18 alle 19, e anche fino a notte tarda, ogni giorno dell’anno, col bel tempo o con la pioggia, confluiscono tutti in Piazza della Libertà - nome quasi simbolico - di fronte alla stazione ferroviaria di Trieste.
Perché qui c’è chi li accoglie, li cura e dà loro da mangiare.
È l’ODV (organizzazione di volontariato) Linea d’Ombra, fondata da una coppia di coniugi originari di Pordenone: Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi.
Lei, 70 anni, è una psicoterapeuta. Lui, 89 anni fra un mese, è un professore di Filosofia e di Storia in pensione. Entrambi dedicano le proprie energie quotidiane ai migranti della rotta balcanica. Ed è per loro, e per contribuire alla loro missione di supporto a questi reietti della Terra, che si è formato e si è messo in azione il gruppo da Bassano.
Il gruppo sorto sulle rive del Brenta, spontaneo ed informale, si chiama “Solidarietà Migranti Bassano”.
Tutto è partito nello scorso mese di gennaio, quando Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi sono venuti a Bassano del Grappa a raccontare la loro storia prima alle scuole e poi in un incontro con gli adulti, in occasione del Cammino di Pace 2025.
Alcuni nostri concittadini, colpiti dalla testimonianza della coppia, si sono messi in contatto e in collegamento con Fornelli Resistenti: la rete nazionale - costituitasi nel 2023 a Treviso e coordinata dall’APS Mediterranea Saving Humans di Venezia - che unisce realtà del Terzo Settore, dell’attivismo e del volontariato da tutto il Nord Italia e non solo e che a sua volta coordina le trasferte dei vari gruppi nel capoluogo giuliano per offrire ed erogare i pasti serali quotidiani a queste “presenze” così invisibili eppure così reali.
Sono così cominciati, proprio dallo scorso gennaio, i viaggi in autonomia a Trieste del gruppo bassanese, mediamente una volta al mese, alternandosi tra i fine settimana e i giorni infrasettimanali, come in questa occasione.
Nulla è lasciato al caso: trattandosi di un’attività da organizzare tutti i giorni, ogni trasferta di ciascun gruppo della rete nazionale rispetta un preciso calendario di prenotazione e anche il cibo e gli altri generi di necessità che vengono portati al seguito sono previsti a seconda delle esigenze, indicate da Trieste, e della stagione.
Il gruppo “Solidarietà Migranti Bassano” è al momento composto da una trentina di persone.
Ad ogni trasferta triestina partecipano dieci - dodici volontari: chi non è di turno collabora sempre e comunque, come è accaduto anche questa volta, reperendo i prodotti alimentari e cucinandoli in giornata.
Alla partenza da Bassano interviene anche la nota farmacista nonché componente del gruppo Chiara Pozzi Perteghella che consegna dei medicinali da portare a destinazione.
Del gruppo in rotta verso Est fanno parte - oltre al vostro umile cronista - Pio Vigo, Michela Piccoli, Matteo Dal Bianco, Erica Beccaria, Giovanna Palaro, Elisa Artuso, Clara Giorgio, Ivano Zortea, Nicola Marangon, Giovanni Marangon, Carolina Mereacre.
Carolina, uno dei tre giovani della squadra, è cittadina italiana, vive in Italia da quando aveva cinque anni ed è di origine moldava.
Dice di partecipare con piacere alla trasferta perché “si sente vicina”, per la sua storia personale, al mondo dei migranti. Comprensibilissimo.
Grazie anche e soprattutto a Sua Mobilità la Superstrada Pedemontana Veneta, giungiamo a Trieste in netto anticipo rispetto all’orario del pasto serale.
Al nostro arrivo, nella piazza davanti alla stazione stazionano già vari capannelli di migranti. C’è chi gioca a carte, c’è chi controlla altre carte (quelle della Questura), c’è chi riposa su un lenzuolo disteso sull’aiuola, c’è chi prega.
Sul tronco di uno degli alberi di Piazza della Libertà qualcuno - chissà quando - ha dipinto, tramandandoli ai posteri, i colori della bandiera dell’Afghanistan ed un cuore con gli stessi colori.
Riesco a stabilire un primo contatto - grazie ad un pallone comparso all’improvviso, con cui ci scambiamo qualche battuta di pallavolo - con due di questi giovani arrivati dalle insidie della rotta balcanica. Chiedo in inglese da dove arrivino e quando sono arrivati. Mi rispondono che arrivano dall’Afghanistan e che sono qui da tre settimane.
Anche gli altri migranti, nel corso di tutto l’incontro, risponderanno volentieri alle mie domande, che pongo un po’ in inglese e un po’ a gesti per chi l’inglese non lo parla, facendosi inoltre fotografare senza problemi.
Il gruppo più numeroso (cosa che non mi sarei mai aspettato) è quello dei fuoriusciti dal Nepal. “Nepal?”, chiedo conferma. “Yes, Everest!”, mi dice con orgoglio uno di loro. Io potrei replicare “Monte Grappa!”, ma rispetto all’Everest non è il caso.
Il mio interlocutore nepalese mi racconta che lui e i suoi compagni di viaggio sono arrivati dal loro Paese esclusivamente a piedi, impiegando undici mesi.
Molti di più ne hanno impiegato, probabilmente per le peripezie incontrate lungo il percorso, i cinque pakistani che sono qui in Italia da un mese e ai quali chiedo pure quanto sia durato il loro viaggio: “Two years”. “Due anni”.
L’incontro ravvicinato con queste persone è anche una lezione di geografia.
Uno dei più giovani tra i presenti - viso gentile, occhi sperduti e una tipica barba centro-asiatica - parla solo la sua madrelingua ma mi fa capire di essere arrivato dall’Uttar Pradesh. Guardo su Google: l’Uttar Pradesh è uno Stato settentrionale dell’India, quello con Agra, la città del Taj Mahal.
Coi ristretti tempi a disposizione riesco solo a fare le domande di base sui viaggi della disperazione di questi esseri umani, in gran parte giovani, che sono stati costretti a lasciare il loro Paese: “quanto?”, “quando?”, “da dove?”. Non c’è il tempo materiale per fare la domanda più importante e soprattutto ascoltarne la risposta: “perché?”.
Più si avvicina “l’ora X” del pasto serale e più la piazza antistante la stazione di Trieste si affolla di migranti, che arrivano alla chetichella dai quattro angoli della città.
Arrivano anche i cocai, i grossi e famelici gabbiani reali triestini, che sanno bene che qui ci sarà da piluccare alla stragrande.
Mentre il gruppo di Bassano del Grappa allestisce e apparecchia i tavoli per appoggiarvi le vivande da distribuire di lì a poco, giungono sul posto anche i rappresentanti dell’organizzazione locale del quotidiano rito conviviale.
Dario Mosetti è un vecio triestin che si presenta tra il serio e il faceto come il “security della piazza”. Conosce la situazione a menadito e sa distinguere i nuovi arrivati di giornata, che hanno la precedenza per il pasto, dai migranti che si trovano qui da più tempo.
Due volontari di Linea d’Ombra, marito e moglie, arrivano invece da Chiavari, Genova: si chiamano Giannino Ulivi e Maria Assalino e mi dicono che vengono a Trieste ogni tre mesi, per una settimana.
E ci sono anche Noman Shabbir e Asad Ullah: due migranti stanziali arrivati dalla stessa rotta e stabilitisi a Trieste, che con cortesia e professionalità collaborano con l’organizzazione e aiutano nell’erogazione dei pasti.
Il primo è arrivato dal Kashmir pakistano, con la famiglia divisa tra Pakistan e India, parla italiano, è molto cordiale e mi viene presentato da Mosetti, anche qui tra il serio e lo spiritoso, come il “comandante di piazza”.
Il secondo, pure pakistano, mi racconta invece dei suoi “otto mesi e 16 giorni” trascorsi in carcere in Turchia, nella città di Malatya, perché colpevole di avere i documenti irregolari. A farlo uscire di prigione ci ha pensato la natura: il devastante terremoto del 2023 in Turchia, a seguito del quale “tutti i 2500 detenuti sono stati liberati”. Quindi la rotta balcanica, al termine della quale ha varcato il confine italiano nei pressi di Gorizia.
In mezzo ai migranti c’è anche un sacerdote.
“Viene qui tutte le sere”, mi spiega Dario Mosetti che è il mio informatore in loco sulle varie figure che compaiono sulla scena.
Si chiama don Gustavo Pez, è il parroco della parrocchia triestina dell’Immacolato Cuore di Maria ed è un prete argentino.
Alcuni ragazzi afghani lo “provocano” scherzosamente: “No Messi. Cristiano Ronaldo is better!”. Il calcio è davvero la lingua universale.
Chiedo a don Gustavo perché viene qui tutte le sere.
“Perché questa è la piazza del mondo - mi risponde, con un inconfondibile accento alla Papa Francesco -. Qui, dietro ogni giovane, c’è una storia incredibile. È l’immagine del nostro mondo. E oggi che si parla tanto contro i migranti, la storia di ogni ragazzo è una cosa incredibile. Vengo per quello. Per ascoltare, per dare una mano, per stare qui.”
Nel frattempo, il gruppo di “Solidarietà Migranti Bassano” ha cominciato a distribuire i piatti: per tutti i commensali arrivati da lontano, è finalmente ora di cena.
Il professor Gian Andrea Franchi arriva in Piazza della Libertà prima della moglie.
Gli chiedo come sia nato “tutto questo”.
“Tutto questo nasce - mi spiega - quando io e mia moglie Lorena, arrivati a Trieste nel 2018 per ragioni private, e avendo però alle spalle un’esperienza di quasi cinque anni della prima rotta balcanica che veniva giù dal Nord attraverso Serbia, Ungheria e Austria, ci siamo resi conto che questo fenomeno migratorio che abbiamo trovato a Trieste è solo l’inizio di quello che si potrebbe definire uno sgretolamento dell’equilibrio del Terzo Mondo, come si chiamava una volta, e cioè il mondo coloniale. Con previsioni di migrazioni immense nei prossimi anni.”
“A Trieste ci siamo resi conto che tra l’80 e il 90% delle persone che arrivavano qui erano in transito, cioè non volevano fermarsi in Italia - prosegue -. E queste persone non avevano nessun tipo di assistenza. Né, ovviamente, dallo Stato, né dal Comune ma nemmeno dalle associazioni del Terzo Settore che si occupavano dei migranti in accoglienza. Ma i migranti in transito finivano là, nelle rovine del vecchio porto, e ci chiedevamo come erano riusciti a sopravvivere.”
“Allora nel 2019, dopo essere stati diverse volte in Bosnia, abbiamo cercato di prendere in mano questo fenomeno venendo qui, cercando di radunare queste persone soprattutto giovani, di curarle, e così è nata “la piazza” - continua Gian Andrea Franchi -. Poi siamo stati costretti, visto che attraverso i social si era comunque formata una solidarietà extra-triestina, a fondare un’ODV perché non potevamo prendere soldi privatamente. E così è nata Linea d’Ombra che ormai da cinque anni continua tutti i giorni, tra mille difficoltà e tanta solidarietà, ad aiutare queste persone.”
La frequentazione della “piazza” è variata nel corso degli anni.
Quest’anno si riscontra una media di nuovi arrivi di migranti molto limitata, che va dalle 15 alle 25 persone al giorno. L’anno scorso erano il triplo mentre due anni fa si era arrivati a 100-150 nuove persone al giorno.
Ma Piazza della Libertà è comunque piena e alla fine della giornata i pasti bassanesi erogati per l’occasione saranno circa 160.
“Queste in maggioranza sono persone che si trovano qui in accoglienza o in attesa di accoglienza, che vengono qui perché sanno che c’è da mangiare e che si mangia bene, e anche per solidarizzare tra loro - spiega il professore -. Questa piazza è diventata un luogo sociale, sia tra i migranti che tra i migranti e chi viene a dare loro qualcosa, a incontrarli.”
Lorena Fornasir, donna dal portamento molto distinto, arriva per ultima. Ma è la più attesa.
È lei infatti, assieme all’infermiera Anita Godelli che si mette all’opera su una seconda panchina, che si assume tutte le sere il compito di medicare i migranti rimasti feriti o doloranti per la fatica lungo il viaggio.
Al suo arrivo, sulle transenne che cingono il monumento della piazza dedicato a Elisabetta d’Austria (la famosa “Sissi”) affigge due bandiere della Palestina in ricordo della tragedia di Gaza, un pannello con le foto di migranti morti o scomparsi sulla rotta balcanica e il “lenzuolo della memoria”: un grande panno bianco dove i nomi degli scomparsi sono stati ricamati dagli stessi migranti accolti a Trieste e in cui campeggia al centro la foto di un ragazzo fuggito dal suo Paese, morto a 21 anni.
Poi, per tutto il tempo e senza sosta, Lorena Fornasir medica e benda piedi.
Ma cura anche ferite sulle fronti e sulle mani, spalma unguenti su schiene arrossate dall’insolazione.
È praticamente impossibile coglierla in un momento di pausa per farle qualche domanda, per cui durante l’ennesima medicazione le chiedo al volo - finché lei continua a medicare - di che cosa abbiano realmente bisogno queste persone, al di là dell’accoglienza sotto forma di una cena.
“Hanno bisogno di essere riconosciute come esseri umani - mi risponde -. Hanno bisogno di un abbraccio, di sentire una parola gentile, di un sorriso, hanno bisogno delle cure che diamo loro.”
“Ma prima di tutto - aggiunge - hanno bisogno di essere accolti come esseri umani. Perché lungo i confini sono stati disumanizzati. Quando arrivano qua portano addosso il trauma d’essere delle “non persone”, violentate e violate dai confini, torturate in “Bulgària”, come dicono loro. Perché lì hanno subito mesi di detenzione, vengono rigettati. Persino i cadaveri vengono rigettati, in Turchia. Li prendono e li rigettano nella terra di nessuno. In Turchia fanno gli schiavi, vendono i reni, e si può immaginare che cosa succede ai minori non accompagnati.”
“E poi, quando possono, risalgono la rotta balcanica e arrivano fino a qua con queste esperienze terribili - prosegue -. Noi non vediamo più la rotta balcanica com’era anni fa. Non vediamo più grandi piedi devastati, grandi vesciche. Poche cose, rispetto a quello che vedevamo prima. Ma vediamo i segni di tortura.”
E riguardo ai migranti che incontra tutti i giorni, Lorena Fornasir conclude:
“Sento tutta la loro gratitudine. Non è un caso che mi chiamino “mamma”, perché questa parola che scorre sulle labbra rievoca la madre che loro non hanno.”
Da qui vengo a scoprire che di mamma non ce n’è una sola.
Sono arrivate le otto di sera, per il gruppo di “Solidarietà Migranti Bassano” è il momento di chiudere i due tavoli, di riportare in auto i contenitori del cibo, di salutare i volontari triestini e di ritornare a casa.
I resti del convivio solidale sono raccolti negli appositi sacchi delle immondizie portati dall’organizzazione, la “piazza del mondo” piano piano si spopola e rimangono in vorace attesa sul posto solo i cocai, nella speranza di ghermire col becco ancora qualche tozzo di pane o qualche chicco di riso.
Scompaiono quindi, così come sono apparse, queste “presenze” invisibili eppure reali che qui si danno appuntamento tutti i giorni tra le sei e le sette di sera, portandosi dietro le loro storie di umana sventura che li hanno costretti ad errare dal loro Est remoto fino all’Est più vicino a noi.
Perché mai come in questo caso, errare humanum Est.
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