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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

Politica

No, grazie

Considerazioni a ruota libera sull'esito del Referendum Costituzionale

Pubblicato il 05-12-2016
Visto 3.047 volte

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Rinascimento in bianco e nero

“Le due parole più brevi e più antiche, sì e no, sono quelle che richiedono maggior riflessione.” Parola di Pitagora.
E se a dirlo è stato il grande filosofo greco, ci sarà un perché. E lo sappiamo bene noi italiani, chiamati ieri ad esprimerci per il Referendum Costituzionale targato Matteo Renzi.
Anche se sono convinto che il voto referendario, nella stragrande maggioranza dei casi, non sia stato il frutto di una autentica riflessione. Riflettere significa entrare nel merito del quesito referendario, valutarne i pro e i contro, analizzarne i contenuti al di là della formula stampata sulla scheda.

Fonte immagine: unita.tv

Cosa non semplice e cosa non facile, per una riforma che chiedeva di modificare 47 articoli della Costituzione Italiana.
Un compito già arduo per i costituzionalisti, figurarsi per un normale cittadino elettore. Più che un voto di testa è stato un classico voto di pancia.
O di mal di pancia, se preferite. Perché la valanga di “No” che ha bocciato il testo di legge costituzionale già approvato dal parlamento - riguardante “il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” - rappresenta un segnale politico che esula dai cambiamenti che erano previsti dalla riforma in questione.
Lo dico chiaro e tondo: qualsiasi persona in grado di intendere e di volere, di fronte alla prospettiva di “ridurre il numero dei parlamentari” e di “contenere i costi di funzionamento delle istituzioni”, sarebbe portata a votare “Sì”.
Se c'è una cosa che ci fa incazzare in questa fase storica del nostro Paese è proprio il sovradimensionamento della casta politica e dei privilegi economici di cui gode. Eppure, con l'esito del voto referendario, ce la teniamo tale e quale sul groppone. Rimane intatto il bicameralismo paritario, il Senato non viene riformato nelle funzioni e nei numeri e i senatori restano 315, invece dei 100 “nominati” (95 dai consigli regionali e 5 dal presidente della Repubblica) previsti dalla riforma. Resta in vigore il grande elefante chiamato CNEL, organo di consulenza del governo in materia di economia e lavoro, e la parola “province” non scompare dalla Carta costituzionale.
Applaudono anche i consiglieri regionali, compresi quelli che erano favorevoli al “Sì”: il loro lauto stipendio non sarà adeguato in ribasso alla busta paga del sindaco della città capoluogo di Regione.
I numeri e i privilegi restano quelli di prima. Ma lo abbiamo voluto noi.
Perché in realtà, nel caso di moltissimi elettori, sui contenuti della riforma costituzionale - per dirla nel linguaggio di Roma ladrona - non je ne poteva fregà de meno.
Non è qualunquistico né semplicistico, infatti, affermare che quello di ieri è stato un voto “pro” oppure “contro” il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che a seguito dell'esito referendario ha annunciato le proprie dimissioni.
Ci ha portato lui, e non altri, a interpretare il senso della consultazione in questo modo. Con una campagna referendaria ad personam condotta ai limiti dell'esasperazione e della sovraesposizione mediatica, che ha visto il premier girare l'Italia e le emittenti televisive a favore del “Sì” dimenticandosi di fatto le priorità governative da seguire a Palazzo Chigi. E che a sua volta ha risvegliato gli istinti propagandistici dei vari Grillo e Salvini, ma anche Monti e Brunetta, ma anche D'Alema e De Mita eccetera eccetera, tutti così diversi e tutti così improvvisamente alleati nel fronte del “No”.
L'ultimo mese, nel nostro Paese, ha avuto il sapore del veleno.
Affogato nel tentativo di imporre il Referendum Costituzionale come un asso nella manica per la definitiva consacrazione popolare di un governo non eletto direttamente dai cittadini, ma tecnicamente nominato dal presidente della Repubblica Napolitano dopo l'uscita di scena dell'esecutivo Letta.
Con la condizione-capestro, imposta a Matteo da Firenze da parte dell'allora capo dello Stato, di mettere in primo piano nell'agenda politica proprio le riforme costituzionali.
Il premier dimissionario - che un paio di anni fa appariva un leader in grado di cambiare in qualche modo l'Italia - è riuscito nel capolavoro antistorico di lacerare il Paese e di dividere le famiglie come non era mai successo negli ultimi decenni. Trasformando in un'arena di voto politico quella che era formalmente una campagna referendaria. E pensando, probabilmente, che l'Italia fosse ancora quella del 41% conquistato alle Elezioni Europee dal Partito Democratico. L'incarnazione dell'anomalia di concentrazione di potere tutta italiana che ha visto il presidente del governo essere anche il segretario politico del partito di maggioranza del governo stesso.
E gli italiani, alla fine, gli hanno reso pan per focaccia.
Per i più svariati motivi: per overdose di esposizione renziana, per eccessivo ricorso ai tweet, per sovraccarico di fuffa istituzionale, per la mancata evidenza di effettivi risultati del governo nel progresso economico del Paese.
E in parte, anche, per una riforma costituzionale - seppur generalmente condivisibile in alcuni punti - costruita male e spiegata al popolo ancora peggio.
Un mal di pancia che dalle nostre parti ha rasentato i sintomi della colite.
Il dato del Veneto non ammette repliche: ha votato il 76,66% degli aventi diritto, con record di affluenza in Italia, e il “No” ha incassato il 61,94% dei consensi contro il 38,06% del “Sì”. E in una città governata dal centrosinistra come Bassano del Grappa, dove l'affluenza alle urne si è attestata al 76,30%, il “No” si è imposto con il 58,88% dei consensi (14.636 voti) contro il 41,12% del “Sì” (10.220 voti).
Quasi in linea con il voto nazionale, che ha registrato il 59,11% di preferenze per il “No” e il 40,89% per il “Sì”, con uno scarto di quasi 20 punti percentuali che abbinato a un'affluenza nazionale del 65,47% conferisce al responso dei cittadini italiani una portata storica.
E mi viene in mente, per restare a Bassano, una dichiarazione di qualche settimana fa ad un quotidiano locale dell'assessore comunale Giovanni Cunico in merito al progetto della “Smart City” dell'area pedemontana, sulla quale l'amministratore della giunta Poletto aveva espresso il proprio convinto interesse. Affermando la sua attenzione nei confronti della ancora embrionale realtà “di area vasta” dal momento che - come aveva dichiarato alla stampa - “le province saranno abolite”.
La frase era ovviamente riferita alla riforma costituzionale, che prevedeva tra le altre cose l'abolizione delle province tra gli enti costitutivi della Repubblica.
E poiché l'assessore Cunico è un renziano del PD della prima ora, nonché co-promotore del “Comitato Bassano Dice Sì”, non poteva dire altrimenti.
Tuttavia non è andata così. La riforma è stata bocciata dagli italiani e le province, che già comunque sono state trasformate in enti non elettivi, fanno ancora parte del nostro ordinamento istituzionale.
Ho citato questo estratto del Cunico-pensiero perché la sua è stata una dichiarazione sintomatica dell'atteggiamento che, dal premier dimissionario in giù, ha contraddistinto i più convinti sostenitori della riforma Renzi-Boschi.
Ovvero la presuntuosa certezza che il nostro Paese, di fronte alla scelta di tagliare i costi della politica (che in realtà nel testo di legge non sono chiaramente specificati), avrebbe risposto alla grande nel segno del “SI cambia”. Nonostante i sondaggi e nonostante la “accozzaglia” degli oppositori della legge costituzionale.
E invece l'Italia, e con essa Bassano, ha risposto: “No, grazie”.
E il mal di pancia, sia a livello nazionale che sul piano locale, si riversa ora su chi ha voluto a tutti i costi confezionare un aut-aut sulla legittimazione popolare dell'Esecutivo, mascherata da riforma della Costituzione italiana.
E adesso che è tutto finito, e inizia un nuovo capitolo del futuro della nazione (nuovo incarico di governo o elezioni anticipate), voglio scrollarmi di dosso il senso di stanca lacerazione che mi ha accompagnato fino a ieri e svegliarmi alla mattina pensando di vivere, possibilmente, in un Paese normale.
Si tratta forse di una pia illusione? Questa volta, pur essendo ottimista di natura, rispondo “Sì”.

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