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Invecchiamento e infiammazioni non vanno sempre a braccetto
Un tour mondiale, nei club più prestigiosi del pianeta. Collaborazioni e remix per nomi scottanti della scena rock e dance. Un mix terrificante di punk e electro. Un’ideologia del caos alle spalle. Alle origini, Bassano del Grappa.
Tutto questo sono in questo momento i Bloody Beetroots, autentico fenomeno mediatico del panorama musicale alternativo. Tutto questo, anzi, è Bob Rifo, mente artistica del progetto: il compagno che lo affianca nei djset, Tommy Tea, è in realtà il tour manager.
Entrambi, originari della piccola periferia bassanese, sono l’esempio più felice e concreto di come si possa raggiungere alta visibilità anche a partire dalla provincia veneta. Il percorso di Bob Rifo con i Bloody Beetroots è stato poi ancora più paradossale: prima l’esplosione a livello internazionale, quindi l’improvvisa attenzione riservata dal pubblico e dai media italiani. È per questo, forse, che Bob sottolinea in molte interviste come questo progetto venga considerato assolutamente internazionale, e come ciò sia successo perché – fin dai primi passi – l’intenzione non è mai stata quella di lavorare nella provincia.

La copertina dell'album “Romborama”
Recensire “Romborama”, il primo lavoro dei Bloody Beetroots, non è cosa facile. Generalmente, le sonorità del disco sono violente, battute, come se il punk si fosse trasferito direttamente in pista (“Cornelius”, “Storm”, ma soprattutto la collaborazione con il producer Steve Aoki in “Warp 1.9”). In brani come “Have mercy on us”, o “Butter”, le influenze della scena dance francese – prima i Daft Punk, poi Justice, con cui hanno condiviso il palco in un tour entusiasmante in giro per il mondo – si sentono eccome, ma nonostante la battuta in 4, tipica del genere, l’attitudine è in realtà più vicina alla rabbia acida dei Prodigy (“Talking in my sleep”). Ci sono anche episodi che si richiamano all’hip-hop (passione mai sopita, a quanto dice Bob Rifo, che ha portato alla collaborazione con Marracash in “Come La”), e momenti più solari (“FFA 1985”, la bellissima “2nd streets have no name”, “Mother”).
Il punto più debole di tutto il lavoro, però, sta certamente nella lunghezza: con qualche minuto in meno, si sarebbero probabilmente potute dire le stesse cose. In realtà, questa critica viene spazzata via dall’ideologia anarchica che sta alla base del lavoro: in un’intervista rilasciata ad un magazine giapponese, Bob Rifo definisce “Romborama” come “la distruzione di tutte le forme della percezione”, una “schizofrenia musicale che rifiuta ogni definizione di genere e espande il concetto di composizione musicale”. Come se, in un certo senso, Romborama fosse la descrizione di ciò che ogni essere umano prova ogni giorno: l’intera gamma delle emozioni umane. È un messaggio particolarmente curioso, perché in qualche modo tenta di descrivere socialmente un mondo totalmente libero da regole, quale quello del dancefloor.
Bloody Beetroots significa infine anche un’intelligentissima operazione di marketing: dal nome (un’intuizione geniale per Google, provare per credere) alle maschere da uomo ragno, che Bob definisce come un richiamo alla “Commedia Veneziana dell’Arte” più che ai fumetti della Marvel, allo studio della copertina del disco, affidata al genio di Tanino Liberatore (autore della copertina di “The man from Utopia” di Frank Zappa); il progetto, insomma, funziona per l’astuta combinazione di un’immagine assolutamente vincente e di un sapiente utilizzo dell’elettronica moderna e vintage.
“Romborama” non aggiungerà molto a quanto già detto dalla dance internazionale, ma è l’avvicinamento ideale ad un progetto artistico, musicale, di marketing e di studio dell’immagine – Bloody Beetroots e quindi Bob Rifo – davvero interessante.
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