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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Arte

Il nostro? Un tempo seriale

Note a margine della conferenza tenuta dal direttore di Mondoserie.it Jacopo Bulgarini d’Elci, a corredo della mostra Caravaggio, Van Dyck, Sassolino. Tre capolavori a Vicenza

Pubblicato il 06-02-2024
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Rinascimento in bianco e nero

“Il tempo non esiste”. Lo disse Einstein, che rincarava la dose affermando poi che la separazione tra passato, presente e futuro ha solo il significato di un’illusione, "per quanto tenace". È anche la frase-guida pronunciata da uno dei protagonisti di Dark, bellissima, plumbea serie televisiva tedesca nata nel 2017, firmata Netflix, tra quelle giudicate le migliori nella produzione degli ultimi trent’anni. Si può iniziare da qui, o illudersi che abbia senso farlo, aggiungendo che l’ambientazione dell’evento in questione è la Basilica di Vicenza e che la preziosa scenografia che lo ha ospitato oltre a quella di Palladio comprendeva tre ragguardevoli opere artistiche scelte appositamente fra quelle che mettono in risalto il dialogo tra l’uomo e il tempo.
La conferenza tenuta da Jacopo Bulgarini d’Elci lo scorso 2 febbraio, intitolata La vita è un soffio. Il tempo nel mito e il tempo delle serie tv, è stata organizzata all’interno del ricco carnet di iniziative allestite a corredo della mostra “Caravaggio, Van Dyck, Sassolino. Tre capolavori a Vicenza”.
Comunicatore, progettista culturale, ex vicesindaco di Vicenza, Bulgarini d’Elci è fondatore e direttore di “Mondoserie.it” — testata con redazione prevalentemente vicentina che gli utenti di Bassanonet hanno avuto modo di conoscere in un numero speciale della rubrica “Modalità Lettura” (urly.it/3zzm0).

un momento della conferenza tenuta da Jacopo Bulgarini d'Elci in Basilica

Mondoserie mette in circolazione interessanti riflessioni sulle trasformazioni dell’immaginario collettivo, in particolare attinenti l’esplorazione della serialità come formula che declina una moltitudine di produzioni dedicate a piccoli/grandi schermi. Nei suoi primi tre anni di vita ha accumulato una quantità di articoli, speciali, podcast di qualità e ricchi di rimandi ragionati, un labirinto alla Carroll dove è lieto perdersi e seguire percorsi tracciati tra generi e argomenti a cura del direttore e del team di collaboratori. I contenuti di questa guida ormai collaudata sono articolati in piani di lettura differenti che non dominano l'uno sull'altro, coesistono; materiali utili a re-visioni e approfondimenti si espongono compilati puntualmente, con rigore e con un retrogusto lasciato da lunghi vis a vis notturni che piace. Un esempio, tornando a Dark: «…da Schopenhauer ai dejà-vu, dallo split screen all’ermetismo, dal nastro di Moebius alla triquetra, dal loop alla mise en abyme, da Lost a The OA, dalla predestinazione all’autodeterminazione, dalla fantascienza alla caverna più o meno platonica…». Questa la sintesi-sintesi, se mai potesse esserlo, di un viaggio di sola andata su Dark — estrapolata da un articolo firmato da Livio Pacella.

Il concetto del Tempo attraversa come un flusso le opere presenti in mostra in Basilica (ne abbiamo accennato qui: urly.it/3zzm6). Sempre sotto il segno del tempo, Bulgarini d’Elci in poco più di un’ora ha gettato un ponte amichevole, un invito al contatto con i temi e la missione che guidano il progetto di Mondoserie e lo ha fatto tramando un racconto originale, per parole e immagini, nel quale le più grandi serie televisive degli ultimi decenni sono state messe a confronto con il mito classico, collocate le pietre miliari che hanno guidato il cammino umano intrapreso fin qui, ossia le grandi domande che da sempre ci tormentano. A scorrere davanti, con l’andamento leggero di sottotitoli, sono stati immagini e parole tratte da queste storie da nuovo millennio, che si riallacciano all’epica da punto interrogativo che risuona da sempre in ogni dove: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?
Sotto il ponte, vi è un altro flusso che attraversa nel quotidiano vita e tempo libero delle persone: torrenti di prodotti seriali che rinnovano la consapevolezza che l’uomo ha bisogno di narrazioni, di sentirsi raccontare storie lunghe, “favole” con un respiro antico che profuma di chansons de geste, di romanzo dell’Ottocento, o più indietro, di poemi omerici. Si cerca l’abbraccio di storie di uomini che si intrecciano le une alle altre, e che sconfiggano la tirannia del tempo (o diano l’illusione di sconfiggerla, che poi è lo stesso, se l’illusione è tenace). Questi i temi messi in campo nella conferenza.
Nella premessa, Bulgarini d’Elci ha citato dall’Ecclesiaste i versi che parlano di vita come un soffio e di vanità delle vanità, assunti alati a cui si contrappongono gli sforzi eroici dell’uomo nella sua rivendicazione di immortalità: le storie che creiamo, i racconti a puntate che costruiamo, sono rappresentazioni di una continua sfida alla morte nella loro pretesa di lunghezza, nel fascino cristallino della dilazione, nell’affondo verso l’infinito.

Ha scelto l’occhio di Lost Bulgarini d’Elci, come inizio e fine (fine?) di questo viaggio, l’inquadratura che apre la celebre serie statunitense che ha preso vita nel 2004. Una creazione fondante, ha ricordato il relatore, poiché contrapponendosi a prodotti dalla concezione standardizzata ha allargato a dismisura i confini dell'immaginazione dello spettatore, invitandolo a entrare nello specchio della tv a esplorare mistero e meraviglia. A fianco, ha fatto scorrere un frammento della prima produzione Rai realizzata a colori, l’Odissea firmata nel 1968 da De Laurentis, con voce narrante iniziale di Ungaretti, a ribadire la perenne volontà di sconfinare di uomini e di storie. A rompere certi canoni televisivi (senza giochi di parole) e a scardinare i dettami classici del giallo negli anni Novanta è arrivata Twin Peaks, è stato ricordato, serie che ebbe un’audience enorme e che ha introdotto il carattere del medium artistico in un’opera destinata alla tv. In Lost c’è un’isola che ha familiarità antiche e parentele con quella di Peter Pan, quella del Dr. Moreau, quella de Il signore delle mosche, a ben guardare. Cosa è successo? è un’altra domanda, di quelle care a Edipo, che le serie pongono moltiplicata come esca di estasi e tormento, irresistibile per lo spettatore.
Un salto tra gli X-Files — nei non luoghi di un’altra serie tv leggendaria targata anni Novanta — ha poi invitato in nuovi spazi impregnati di sentimenti di diffidenza istituzionale e percezioni (che hanno ben attecchito) di un grande complotto che sovrasta incipiente l’umanità. Più vicino a noi, tra i prodotti interessanti si è affacciata True detective (2014), dove i due investigatori protagonisti — e gli spettatori che hanno vissuto alcune “stagioni” con loro — indagano soprattutto se stessi, spostato l’asse d’interesse in prospettiva dostoevskiana dai delitti alla percezione del male che si ha dentro di sé.
Se le storie de I Soprano, serie cult a cui Mondoserie ha dedicato uno speciale in occasione dei 25 anni dalla prima messa in onda, invitano a guardare con altri occhi la complessità del mondo e a cercare la radice “fraterna” di una colpa che ci fa sentire corresponsabili, quella raccontata in Breaking Bad è un affondo in una forma contemporanea del tragico, dove il protagonista Walter White, allo specchio, come un novello Tiresia, afferma: “l’assassino sono io, l’ho fatto per me”.
Ci sono cicatrici e ferite profonde, senza età, in tanti racconti che il pubblico ama ai nostri giorni: in opere come Euphoria, dove si tratteggia l’affresco brutale di adolescenti perduti, si travasa un senso di perdita dell’appartenenza che si avverte intorno e che ben riconosciamo — riflessi nei fotogrammi che appaiono sullo schermo collocato in Basilica, sanguinano gli ingranaggi di Sassolino.
Lo sguardo di tanti prodotti seriali non votati all’ottica commerciale, pur parlando della contemporaneità non resta puntato sul qui e ora. C’è un richiamo costante alla classicità nella conferenza di Bulgarini d’Elci, che ha evocato il viaggio di Ulisse, Achille e la sua canzone struggente, il ritorno a Itaca scritto in poesia da Kavafis. E il futuro? In un frammento inquadrato di Made Men si sono visti dei pubblicitari venditori di sogni precipitare dalle finestre di un grattacielo, dietro un flash da Torri Gemelle; Il racconto dell’ancella, altrove, disegna un domani/l’altro ieri distopico; Mr.Robot mette in scena la crisi dell’io in uno scenario dove si compenetrano con ferocia virtuale e reale.
Crolli annunciati e crolli forgiati: nella carrellata sono avanzate le apocalissi degli zombie in stile The Walking Dead, a raccontare gli scenari più bui, in mondi governati dalla legge del più forte. La fragilità della vita emerge con altre tinte in The Last of Us, “un emozionante racconto su ciò che ci rende umani” e in serie record come Game of Thrones. Come anticipato, è un occhio con riflesso un mondo che si chiude per sempre (forse) a fotografare il finale della conferenza-spettacolo.

Le serie tv soggiacciono in molti casi allo stesso pregiudizio che interessò in certi momenti anche la televisione migliore, sono pensate da molti come puro intrattenimento casalingo; è rimasta a lungo lontana l’idea di esplorarle nelle loro espressioni più riuscite, seguendole su vette e in abissi, come un mezzo di comunicazione strategico attraverso cui studiare i fenomeni culturali e la realtà, nelle sue tante sfaccettature.
È inoltre interessante tenere in considerazione che in tempi in cui prosperano le piattaforme di streaming, che cancellano la sincronia della visione, oltre all’inutilità di calendario e lancette si debba tenere conto che praticare binge watching (le cosiddette maratone) cambia ulteriormente l’assetto delle storie che ci raccontiamo.
Anche in questa dichiarata, bellissima tendenza anni VentiVenti allo stile Dancer in the Dark, se la vita è un soffio e tutto è vanità, vale la pena di riportarle all’aria e di cullarle, ogni tanto, le radici che ancorano a terra l’immaginario umano.

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