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Laura Vicenzi
Giornalista
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Una recensione di Un soffio di vita, libro postumo di Clarice Lispector, considerata la maggiore scrittrice “brasiliana” del secolo scorso
Pubblicato il 28-03-2021
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Capita tra le mani consigliato a un festival letterario di quelli dal vivo che tanto ci piacevano, il libro di Clarice Lispector intitolato Un soffio di vita (Adelphi, 2019, 188 pagine, 16 euro) e alle mani sembra voler sfuggire di continuo, o sono loro stesse ad abbandonarlo quasi contenesse materia viva, scottante delle scottature da ghiaccio che funestano le scalate. Si tratta di un libro pubblicato postumo dell’autrice, considerata la maggiore scrittrice “brasiliana” del secolo scorso. Clarice Lispector era nata in Ucraina da genitori russi nel 1920, cent’anni fa, ed è morta di malattia a Rio de Janeiro nel 1977. La traduzione in cui la pubblicazione appare in Italia è di Roberto Francavilla, e non è un dato irrilevante, come talvolta capita, perché piaccia o non piaccia la traduzione di un libro dai connotati così poetici è giocoforza una traduzione d’autore. Una “tormentata rapsodia”, la definisce Francavilla nella postfazione, e il tormento, il senso di morte che lo pervade, ma ancor di più l’impressione che le parole raccolte e orchestrate nelle pagine provenga da una zona siderale, dove l’organico non è già più organico, è il primo treno che arriva addosso al lettore incauto che si avvicina al libro disarmato. Non ha l’articolazione di un romanzo, non si intravede il filo rosso di una trama, ma forma e materia non sono disgiunte: la scrittura pur restando narrativa procede per frammenti, per scintille che accendono a tratti un buio cosmico sempre in movimento, parte di un andare per niente amico, dove solo le parole, e il pensiero, ancorano da qualche parte.
Un libro definitivo, l’ha appellato la sua artefice, che è stato scritto nella sofferenza, ha dichiarato, che eppure trasuda un amore viscerale per la vita e per le parole, quelle che scavano e arrivano al nucleo dell’esistenza, sia essa qui, in luoghi che conosciamo, o già non più qui, in un altrove che viene guardato in faccia da una donna che non è più donna, né malata, né russa, né brasiliana, ma uno scrittore che vive il “non tempo sacro della morte trasfigurata”. Tra le pagine, in un libro nel libro, va in scena in un flusso di corrente più calda il gioco di un dialogo tra l’autore e la sua creatura, Ângela, un personaggio dal nome non scelto a caso a cui l’autore dà vita e che nel contempo consente a lui di vivere osservandola come creatura fuori da sé (una donna pulviscolo, una stella cometa): gli esseri che si animano nell’artificio in realtà non sono due, ma uno solo, anche se entrambi scrivono, e gemono (viene scritto).
Ogni parola qui è importante, entrati nel labirinto del testo, si cerca di coglierne la struttura, si ammira un lavoro al telaio che sembra mai composto, quasi magico, poi ci si arrende a questa dimostrazione in bianco e nero dell’incompiuto che governa la coniugazione sogno-pensiero-essere, pedine anche noi lasciate e prese, comparse in un non-luogo che evoca le atmosfere del più celebre Castello, di Kafka. Franz Kafka è spesso citato accanto al nome della Lispector, ma c’è qualcosa di più teatrale, se possibile, e di votato interamente al culto della parola nell’opera della scrittrice; nell’immersione nella temperie di questo libro si sentono le forti vibrazioni e i toni scuri che ricordano gli scritti di Joan Didion. Il racconto termina in un’alba che sancisce un distacco, una di quelle da 4:48 del mattino cantate da Sarah Kane, ma finisce in vero con tre punti di sospensione, in una conclusione che non poteva essere altrimenti segnata, non dicibile, un soffio di vita.

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