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Redazione
Bassanonet.it
Oceano Iran
Intervista a Nicola Zolin, protagonista della mostra fotografica dedicata all'Iran in allestimento nella loggetta del municipio di Bassano. Evento promosso da Bassanonet per Bassano Fotografia
Pubblicato il 11-09-2013
Visto 4.751 volte
Dal 14 Settembre torna a Bassano del Grappa Bassano Fotografia, la manifestazione biennale che per due mesi punteggerà la città di immagini e narrazioni. È all’interno di questa variegata kermesse che si colloca la mostra “Oceano Iran”, una raccolta di scatti che, nella suggestiva cornice della loggetta del municipio, ritesse la trama di un viaggio attraverso il vasto e molteplice territorio persiano. Ne parliamo con l’autore, Nicola Zolin, giovane giornalista e fotoreporter di Mason Vicentino, già noto ai lettori di bassanonet per la sua rubrica Contaminazioni.
Il soggetto della tua mostra fotografica è l’Iran. Perché hai deciso di raccontare proprio questo paese?
Nicola Zolin
Fino ad un anno fa ero uno dei molti occidentali con un’idea stereotipata dell’Iran, basata su una non conoscenza o su una confusione dettata dai media e questo è stato proprio ciò che mi ha spinto ad andare lì: la voglia di ricercare con i miei occhi. Ho sempre sognato di fare un viaggio via terra dall’Italia all’India, attraversando il Medio Oriente, e sono riuscito a farlo l’anno scorso. L’Iran era una tappa di questo percorso e ne è diventata la parte più interessante. La cosa incredibile è che arrivi in un posto nuovo, dove non sei mai stato, eppure all’improvviso ti senti a casa. Questa è la magia dell’Iran, che non ho mai sentito così forte altrove.
Come mai hai scelto di intitolare la mostra “Oceano Iran”?
Perché nel mondo l’oceano è la cosa più vasta e al contempo più sconosciuta. L’oceano è per noi un mistero e per gli occidentali lo è anche l’Iran. Una realtà difficilmente catturabile, piena di diversità, di culture, gruppi etnici, lingue e situazioni geografiche. È un paese immenso, grande 5 volte l’Italia, e l’oceano era l’unico modo per definire una realtà del genere, per esprimere lo stupore di fronte alla sua immensa vastità e alla ricchezza della sua storia.
Un Iran misterioso come l’oceano. Ma perché questo paese ci è così sconosciuto?
Tutto ciò che esce dal Nord America e dall’Europa ci è sconosciuto, per la nostra educazione. Non studiamo la storia extraeuropea e nemmeno le relazioni nel Mediterraneo, nonostante sia stata inizialmente questa la nostra casa. L’Iran non lo comprendiamo: il semplice fatto che si tratti di un paese musulmano e che in esso viga la legge coranica è per noi incomprensibile. Vivendo nell’epoca dell’impero americano, abbiamo introiettato l’immagine dell’Iran come un nemico, è un paese che viene costantemente demonizzato. Il problema è che purtroppo si confonde tra il governo e le persone: pensiamo immediatamente al regime, alla sua politica, ed i nostri giornali diffondono solo le notizie più scioccanti, ma la gente comune è un’altra cosa. Sono due mondi diametralmente opposti.
L’universo dei giovani iraniani è una parte fondamentale della tua mostra. Che impressione hai avuto di loro?
Teheran è una città progressista, in cui tanti giovani non sono religiosi, sono contro il regime e cercano semplicemente di vivere la propria vita come possono, anche se il sistema limita fortemente le libertà personali e gli scambi tra le persone, a causa di un bigottismo religioso che impedisce ai giovani di bere alcolici e alle donne di parlare con uno sconosciuto per strada. Siccome non ci sono locali o club dove conoscersi, i giovani hanno sviluppato una serie di strategie che permettono loro di vivere una vita relazionale in ogni caso. Un bell’esempio di questo è il dordor: i ragazzi si incontrano in alcuni quartieri periferici della città, dove girano con la propria auto per una, due, tre ore. Si affiancano, si guardano attraverso i finestrini, si sorridono, si salutano, si osservano e se si piacciono si scambiano i numeri di telefono e nei giorni successivi si telefonano per incontrarsi, per un’avventura anche solo di un giorno. Oppure organizzano feste private, dove si beve alcool e si trovano sostanze stupefacenti. Una vita clandestina che però è in realtà normalissima e conosciuta da tutti.
In alcune tue foto si respira una profonda carica sensuale. Come vivono i giovani la sessualità in un paese dalla forte tradizione religiosa?
È una delle cose più interessanti dell’Iran. Di norma una coppia non fa l’amore prima del matrimonio e questo è consolidato nella morale comune. Nelle campagne viene ancora rispettata la tradizione per cui la prima notte di nozze i suoceri della sposa verificano che lei sia veramente vergine: gli sposi raccolgono il sangue in un fazzolettino e lo mostrano ai genitori. Poi dipende dai luoghi: nelle grandi città come Teheran il comportamento è più libero, c’è gente che si fa beffe di queste norme e i giovani sono abbastanza “piccanti”, fanno l’amore, ma in maniera clandestina. Molti ragazzi mi hanno raccontato di avere rapporti principalmente anali e orali con le ragazze, in modo da preservare quantomeno una verginità formale. A questo cercano di attenersi. Chissà, forse le donne diventano davvero libere solo una volta che si sposano...
La mostra è divisa in 4 sezioni: percezione, devozione, evasione e stasi. Perché ti sei soffermato proprio su questi aspetti dell’oceano iraniano?
Perché queste sono state le fasi del mio processo di scoperta dell’Iran, un processo che penso sia interessante da ripercorrere anche per il pubblico. La percezione è l’immagine che ci arriva dell’Iran: fondamentalismo islamico, donne che indossano chador, ampie moschee. Certe immagini sono comuni nei media occidentali ed essendo molto forti possono essere facilmente strumentalizzate. Nella devozione invece volevo raccontare la religione sciita, alcune pratiche e festività in onore dell’imam. La cosa impressionante è che la religione si sia mantenuta nonostante il cambiamento dei tempi: certe norme risalgono ad epoche antichissime e sono state pensate per le rispettive società. Questa è forse la sfida che in linea generale l’Islam deve ancora riuscire a raccogliere: il fatto di coesistere con il cambiamento, con la modernità, con le esigenze umane di oggi.
Dato che dell’evasione giovanile ci hai già parlato, non rimane che la stasi. Come mai scegli questa parola per descrivere la vita quotidiana del popolo iraniano?
Perché la mia impressione finale dell’Iran è una sensazione di blocco, un senso di vuoto. È pura stasi, nel senso che non si sa cosa accadrà domani; molti sperano che il domani sia diverso dall’oggi ed auspicano un cambiamento, ma crearlo è impossibile. Quando nel 2009 è stato rieletto Ahmadinejad, c’è stata la cosiddetta rivoluzione verde: le persone sono scese in piazza per protestare, ma sono state uccise, le dimostrazioni represse e la gente ha capito che l’ondata pre-elettorale di speranza non era che un’illusione. In Iran nessuno ha più il coraggio di sperare. Oppure si spera, ma in silenzio.
Qual è il senso di raccontare l’Iran a Bassano del Grappa?
Il fatto che l’Iran è abbastanza sconosciuto, sempre filtrato da pregiudizi che ho piacere di distruggere, e con questa mostra voglio aprire la visione delle persone sulla diversità di questo luogo, sulla legittimità o meno dei pregiudizi che lo connotano, sui differenti piani di cui bisogna tener conto quando se ne parla. Infatti con tutte le persone con cui ho parlato dell’Iran mi sono reso conto di aver aperto porte che loro nemmeno si immaginavano ed è la stessa cosa che è successa a me. Perciò voglio concentrarmi su questo: perché per me è stata una grande sorpresa, una meravigliosa esperienza ed una bella avventura che mi fa piacere poter raccontare.
Intervista di Clara Zanardi
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