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Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
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Lo sguardo di Beckett

Andato in scena al Teatro Remondini Da Krapp a Senza Parole ha riportato con fedeltà luci e ombre della riflessione di Beckett sulla condizione umana

Pubblicato il 09-01-2013
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Elena Pavan

“Non c'è niente di più comico dell'infelicità”. Nei classici della drammaturgia andati in scena ieri sera al Teatro Remondini il tema principale è sintetizzato nella famosa frase di Beckett inserita nel prologo: due scorie umane molto radioattive – Glauco Mauri e Roberto Sturno – imprigionate (o in eremitaggio) nei loro involucri/bidoni, annunciano fin dall’inizio dello spettacolo una riflessione che viene poi sbobinata nei quattro momenti successivi e che mette in rappresentazione l'impossibilità del tragico a cui è condannato l’uomo nella società contemporanea.
Glauco Mauri e Roberto Sturno in Da Krapp a Senza Parole hanno impersonato l’uomo beffato e ingannato dalla vita che sembra sempre soccorrerlo ma poi sempre lo delude, e che trova una dignità commovente nel rifiuto e in una solitudine infine scelta, se non cercata.
Nell’esordio dello spettacolo il volto, o meglio lo sguardo di Beckett, campeggia per qualche tempo sullo schermo che fa da fondale alla scena. Quello stesso sguardo torna a fissare il pubblico a conclusione di tre atti Improvviso dell’Ohio, Atto senza parole e L’ultimo nastro di Krapp, rilanciato dagli attori: non è un’occhiata indirizzata allo spettatore, a un altro, è lo sguardo che si rivolge all’immagine di sé riflessa in uno specchio. In Respiro la presenza fisica degli attori non è neanche necessaria: sul palco c’è un cumulo di macerie, si ode un vagito, scorrono pochi secondi, poi si riconosce la resa di un ultimo respiro. In mezzo c’è la vita: qualche attimo da trascorrere tra “rifiuti” universali.

Samuel Beckett

In Atto senza parole manca la voce, l’azione è solo mimata. L’unico personaggio in scena, solo in un deserto, viene comandato a bacchetta da un fischietto che impera, che dà e nega, soprattutto che inganna. L’uomo spiega e ripiega continuamente un fazzoletto bianco, proclama le sue rese: alla fine non tenta neanche più di raggiungere la brocca d’acqua calata dall’alto, ogni espediente è stato vano, come vano è anche il tentativo di suicidarsi – la palma si è rifiutata di collaborare, nessuna complicità nel deserto, qui si è soli. Il Lettore e l’Ascoltatore, in Improvviso dell’Ohio, e l’Artista e la sua Memoria, in Il nastro di Krapp, sembrano essere gli unici esseri dialoganti presentati sulla scena, eppure in entrambi i casi si tratta sdoppiamenti, Beckett fa in modo che le due parti non si incontrino ma in realtà coincidano. Eppure questa recita d’ascolto sembra dare una speranza, un sollievo al dolore umano, certo perché tra loro questi esseri che nell’Improvviso sono uguali anche nel vestimento, possono parlare di “quando la felicità era forse ancora possibile”.
Nel dialogo con il nastro si intreccia anche un interessante parallelo che riguarda l’attore che impersona Krapp: Mauri in effetti riascolta un nastro che riporta la sua recitazione del dramma di Beckett effettuata negli anni ’60. Nel corso della recita, per un problema tecnico dovuto al suono, Mauri ha dovuto interrompere il monologo, è sceso il sipario e lo spettacolo è ripreso dopo alcuni minuti. È stato un fuori copione interessante, l’imprevisto dispettoso – non annunciato da un fischio questa volta – che ha silenziato per qualche attimo la narrazione e che ha portato l’inedito in scena, è di quelli che piacciono molto agli uomini che vivono aspettando Godot.
Il pubblico che aspettava uno spettacolo che presentasse qualche appiglio consolante, qualche fune calata dall’alto non ingannatrice, si è impegnato in un applauso di circostanza; gli altri, giustamente, hanno plaudito e sorriso a Beckett, anche loro “seduti, come mutati in pietra”.



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