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Niente. Non avete niente.
Oggi è la vigilia di Natale. Oggi qualche miliardo di persone si prepara a celebrare il farsi uomo di Dio. Oggi qualche miliardo di persone si prepara a santificare secondo altri e più moderni riti una festa piuttosto antica. Aggiungete pure il blabbla sull'apparenza, sul consumismo, sull'inutilità di metà delle cose che facciamo. Ecco confezionata una lettera standard sul decadimento dei costumi e sulla necessità di una brusca correzione di rotta, rispetto al barocco sporco e decadente dei nostri giorni luccicanti. Non è questo, quello che voglio scrivere. Meglio metterlo in chiaro subito, onde evitare di venir confuso con un telepredicatore barbuto da due soldi e nessuna sostanza, buono solo a ripetere chiacchiere ed aria fritta in olio minerale. Anche perché, in tutta onestà, non ne ho i numeri. Preferisco, quando possibile, essere scorbutico, sgraziato, antipatico. Preferisco non scendere a compromessi di immagine: voglio che quello che ho da dire sia considerato per la sua sostanza, non per i fronzoli, per i fiocchetti, per il feel e la simpatia. Quindi rincaro, e poi argomento: non avete niente. Siete galline sgraziate, rese incapaci al volo da una vita servile di compromessi, di rospi da ingoiare, di sfruttamento, di gabbia. Ho scritto siete? Chiedo scusa.
Siamo. Non sono diverso, in nessun modo. Ho un solo privilegio: un posto di osservazione speciale, il mio letto d'ospedale, una consapevolezza acuita dalla malattia, dalla minaccia della morte, uno sguardo reso lucido dal dolore. Fratellini e sorelline, vorrei vedere come reagireste voi, al posto mio. Io ho deciso, per quanto possibile, di fare del mio meglio, nel modo che posso. Mi sono messo a scrivere dell'importanza di cose sottovalutate, di quanto potete fare con i vostri soli corpi, delle vite che potete salvare. Mi sono stupito e vi ho fatti stupire dei morti per ignoranza, per paura, per pigrizia. Ho detto di lanciare il vostro salvagente, di non essere avari. Ho scritto, in ultima analisi, di sogni spezzati. Di cura. Di coscienza, di senso civico ed umano. Molti di voi, molti più di quanti non credessi o sperassi, hanno colto, non solo precipitandosi in ospedale, ma scrivendomi, cercando di portarmi conforto, amicizia, calore. A tutti ho risposto, in un modo o nell'altro, di non mollare. Mi sono coperto le braccia di lividi, per il troppo scrivere. Colpa anche delle poche piastrine, chiaro, non sono così stupidamente portato al martirio. Ora, è imperativo anche per me, non fermarmi.

Cosa vuole fare Spit, vi chiederete? Non lo so, non sono abbastanza saggio, accorto o avveduto per vederlo con chiarezza. Ho delle idee, delle intuizioni. Una è la percezione della nostra gabbia.
L'altra è che sarei un pazzo, e dovrei sentirmi colpevole, se non spingessi ulteriormente sulle nostre piccole coscienze sovreccitate, agitate e riscaldate come gli atomi di un gas da questa contingenza particolare. Poi, c'è da dire, vi sono anche ben grato per tutta questa magnifica bagarre, e da che ho memoria non ho mai avuto beni più preziosi delle mie poche parole, delle idee da cui esse nascono, per ricambiare i favori ricevuti. Quindi, il massimo che posso fare, ora, è scrivere di gabbie. Del modo in cui siamo tutti stati educati ad evitare il dolore, in ogni sua forma. Di come siamo tutti bravi a rimuovere, a non vedere, a girarci. Ecco perché non avete, non abbiamo, niente. Ecco la nostra schifosissima e molto deprecabile deprivazione, il nostro colpevole isolamento. Non abbiamo niente perché non abbiamo noi stessi, perché non abbiamo le altre persone. Non nel senso bruto del possesso materiale, si intende: nel senso che siamo pazzescamente soli, che restiamo soli per paura di essere feriti, di accogliere un possibile dolore nella nostra vita. Così i bambini smettono di piangere, per non sembrare deboli, così gli adulti diventano cinici, freddi. Pensate a quanto formali siete quando chiedete a un semisconosciuto come stia. Pensate al modo automatico in cui rispondete ad una domanda del genere: Bene, grazie, senza nemmeno pensarci. E questo è il modo in cui vi ammazzate tra voi, membri di una stessa comunità, concittadini. Ben sapete come prosegua questa strada nei confronti di qualcuno più “altro” del vicino di casa. Voglio regalarvi questo, per il vostro Natale: un po' di me, un po' dei miei occhi, per vedervi da fuori, per essere oggettivi quanto un malato. Voglio sperare, voglio credere che serva, voglio pensarvi, da oggi, più attenti, come siete stati più attenti dopo aver udito della malattia, del sangue, del midollo. Più accoglienti. Più aperti.
Più persone, meno bestie in gabbia. Non so come, non so quando, ma sono convinto che tutto questo servirà a qualcosa. Siate persone, vi prego.
Spit
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