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Demografia glaciale: i rischi per l’economia e il lavoro del Nordest

Intervista a Marco Bentivogli, già a capo dei metalmeccanici nazionali della FIM CISL. «Riduzione della crescita, bassa competitività e poca innovazione»: ecco i rischi della “silver economy”

Pubblicato il 04-06-2024
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Entro il 2040 secondo le previsioni della Fondazione Nordest, senza migrazioni e nuovi nati, in tutto il Nord si assisterà ad un calo demografico superiore ai 2,3 milioni di residenti. Nel Nordest, in particolare, la riduzione sarà di 939 mila persone e nel solo Veneto il calo sarà di oltre 387mila cittadini. La glaciazione demografica avrà effetti profondi, ancora non del tutto pienamente valutabili, sul mercato del lavoro e sulle scelte delle aziende locali, grandi e piccole. Se fino a qualche anno fa mancavano i profili specializzati ed erano quasi introvabili i profili “STEM”, ovvero i laureati in materie scientifiche, nel futuro le imprese dovranno contendersi anche i profili più generici e senza particolari esperienze di lavoro. Banalmente, i tassi di occupazione nel nostro paese sono destinati a migliorare semplicemente perché la base demografica di riferimento si sta assottigliando sempre di più. Marco Bentivogli, già a capo dei metalmeccanici della FIM CISL, e ora e coordinatore del movimento Base Italia, conosce molto bene la realtà industriale e del lavoro del Veneto e del Nordest.

Quali saranno gli effetti più evidenti del declino demografico sul mercato del lavoro?

Marco Bentivogli è un attivista italiano, è stato sindacalista leader dei metalmeccanici e coordinatore e co-fondatore di BASE ITALIA esperto di politiche di innovazione dell’industria e del lavoro.


«Il calo demografico avrà impatti significativi, con una riduzione significativa della forza lavoro disponibile, specialmente in settori già afflitti dalla carenza di manodopera qualificata. Le imprese lotteranno tra di loro per trovare lavoratori qualificati, con conseguenti rallentamenti nella produzione e nei processi d’innovazione. Siamo ormai dentro una fase pericolosa di invecchiamento e de-giovanimento della popolazione. Non è però un destino ineluttabile per tutti i paesi occidentali. In Francia e in Nord Europa la natalità cresce. Da noi si parla da anni solo di pensioni».

Quello che la “glaciazione demografica” potrebbe causare nella nostra economia è un tema davvero ben compreso da politica, imprese e corpi intermedi?

«Anche se il concetto di glaciazione demografica è ampiamente riconosciuto, potrebbero esserci disparità nella comprensione e nell’azione da parte di politici, imprese e organizzazioni intermedie. Quello che non è chiaro è che in Italia sta avvenendo, come lo definisce il New York Times, una specie di “silver tsunami”. Un invecchiamento della popolazione molto più rapido di qualsiasi previsione. Politica, imprese e corpi intermedi limitano la loro azione ad un orizzonte che paradossalmente è sempre più corto e breve. Le politiche di breve, ormai è chiaro, non sono solo inutili rispetto ai nuovi mega trends ma sono persino dannose».

In Veneto la questione demografica si somma al problema cronico del reperimento dei profili specializzati. Per le aziende diventerà una sfida anche mantenere qui molte produzioni?

«Nel Veneto la combinazione di una popolazione in declino e la difficoltà nel reperire profili specializzati, soprattutto nel settore STEM, renderà sempre più difficile per le aziende mantenere la produzione nella regione. Le imprese potrebbero essere costrette a cercare alternative come l’outsourcing o l’adozione di tecnologie avanzate per compensare la mancanza di manodopera qualificata. Scontiamo, però, la totale assenza di programmazione. Vale per l’industria, come per la sanità. Ognuno ha pensato al proprio piccolo orto elettivo e oggi il default demografico rischia di trasformarsi in default economico, sociale, civile. Sul lavoro e le competenze non esiste “orientamento”, per esempio lasciamo ancora narrare il lavoro solo dalla tv. Poi ci si meraviglia se il lavoro e la formazione viaggino su strade divergenti».
In prospettiva quali i settori industriali più in difficoltà nel reperire profili adeguati?

«I settori più colpiti potrebbero essere quelli ad alta tecnologia e innovazione, come l’IT, l’ingegneria e la ricerca e sviluppo. Anche settori tradizionali come l’industria manifatturiera potrebbero soffrire a causa della carenza di manodopera qualificata. Abbiamo narrato male un’industria che invece dà migliori condizioni di lavoro, salariali e di stabilità contrattuale. La fuga verso il terziario sta facendo vivere risvegli dolorosi con troppo lavoro povero e non tutelato. Anche il terziario faticherà a trovare lavoratori».

E quali potrebbero essere a cascata le conseguenze per l’economia italiana?

«Riduzione della competitività delle imprese italiane a livello internazionale, un rallentamento della crescita economica e una diminuzione dell’innovazione e della produttività complessiva. Accanto all’economia è anche il nostro stato sociale che rischia di saltare. A partire dal Servizio Sanitario Nazionale per passare poi per la previdenza. Rischiamo di non avere, in modo diffuso, alcun servizio sociale degno di questo nome. Siamo un paese con una speranza di vita media molto elevata. Ma se guardiamo la quota di “vecchiaia in buona salute” perdiamo 15 posizioni».

Le imprese che contromisure stanno adottando?

«Le imprese più attrezzate stanno lavorando sugli investimenti nella formazione interna, sull’attrazione di lavoratori specializzati dall’estero attraverso salari competitivi e benefit e l’adozione di tecnologie avanzate per automatizzare processi. Ma la partita vera la possono giocare “insieme”, costruendo ecosistemi territoriali dell’innovazione e delle competenze. Purtroppo, ognuno gioca in solitaria la sua partita e le associazioni di rappresentanza, che avrebbero un ruolo fondamentale, tutt’al più organizzano convegni».

Migliori salari e stipendi riusciranno ad attirare lavoratori specializzati dall’estero?

«Offrire migliori salari e condizioni lavorative può certamente attrarre lavoratori specializzati dall’estero, ma potrebbe non essere sufficiente a compensare completamente la carenza di manodopera qualificata, soprattutto considerando la concorrenza globale. Salari bassi, scarso dinamismo interno delle aziende, Pubblica Amministrazione e Università soffocata da politica e burocrazia, rendono il nostro paese poco attraente. Abbiamo fatto credere ai politici che possono guadagnarsi da vivere spaventandoci o negando i problemi. Bisognerebbe essere più esigenti ricordandogli che il loro compito è costruire un paese attraente, giusto e forte».

L’Italia ha un problema di bassi stipendi e salari da oltre un ventennio. Questo livellamento verso il basso è stato una delle cause anche della bassa propensione degli studenti a scegliere in primis un percorso universitario?

«La polarizzazione verso il basso dei salari potrebbe certamente influenzare la propensione degli studenti a seguire percorsi universitari e tecnico-scientifici. La percezione di bassi guadagni futuri potrebbe disincentivare gli studenti dall’impegnarsi in tali percorsi di studio. L’OCSE dice che siamo intrappolati in un “low skilled equilibrium” e siamo in coda alla classifica come numero di laureati in Europa. Bassa produttività, bassi salari, livello medio-basso di competenze. C’è una necessità assoluta di operare una discontinuità del gruppo dirigente complessivo come ho scritto nel mio ultimo libro “Licenziate i padroni”».

Le strategie per mantenere i lavoratori skillati anche oltre l’età pensionabile sono destinate ad aumentare?
«È quello che già accade. Il rischio però è quello di mantenere lavoratori skillati senza generare e rigenerare competenze. Le generazioni precedenti si sono battute per le pensioni di anzianità ma, anche in assenza di necessità di reddito, hanno continuato a lavorare dal giorno dopo come consulenti. Questo è un paese che punta sui pensionati, altro che giovani e natalità. Ma queste cose non le dice nessuno perché i giovani sono elettoralmente “pochi”».

Basterà il saldo migratorio dall’estero per tenere a galla il mercato del lavoro?

«Se gestito efficacemente, un saldo migratorio positivo dall’estero potrebbe certamente contribuire a sostenere l’economia italiana nel futuro, fornendo una fonte aggiuntiva di manodopera qualificata e stimolando la crescita economica. Tuttavia, ciò richiede politiche di immigrazione chiare e strategie di integrazione efficaci. Bisogna prendere esempio dal progetto “Società civile 5.0” adottato dal Giappone che ha gli stessi nostri problemi demografici».

(L'intervista è stata pubblicata in anteprima nell'edizione cartacea numero zero di Bassanonet, giugno 2024)

Il 23 maggio

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