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Luigi MarcadellaLuigi Marcadella
Giornalista
Bassanonet.it

Imprese

Zaiaeconomics (parte seconda)

Viaggio politico nell’economia del Veneto di oggi. Ragioniamoci sopra con Giovanni Costa, Luigi Copiello e Settimo Gottardo

Pubblicato il 17-12-2022
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Qualcosa si muove dunque nel profondo dell’economia veneta.
L’aggregazione confindustriale di Padova, Treviso, Venezia e Rovigo ha dato vita ad una piattaforma che rappresenta oltre 5 mila imprese, 32 miliardi di esportazioni, la seconda associazione nazionale per importanza dopo Assolombarda. Giovanni Costa è professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova, è stato presidente della Cassa di Risparmio del Veneto e vanta una lunghissima sequenza di ruoli e cariche di primo piano.

Luca Zaia, Presidente del Veneto

Il ragionamento sulla “Zaiaeconomics” riparte anche in questa seconda puntata dal bilancio più aggiornato dell’economia regionale post pandemia.
«Il Veneto sta dimostrando – osserva il professor Costa - una capacità di ripresa molto accentuata, soprattutto grazie alla dinamicità di un buon numero di imprese che potremmo definire “double digit company”: imprese che crescono a doppia cifra nel fatturato, nell’export e nel margine operativo. Sullo sfondo si impongono due temi con valenze in apparenza opposte. Il primo riguarda un revival del localismo. Alle filiere lunghe su scala globale si oppongono filiere corte, che valorizzano la prossimità e il radicamento territoriale. Il che è corretto. Sarebbe però un errore interrompere il processo d’internazionalizzazione delle nostre imprese, processo che richiede anche investimenti diretti esteri, per affrontare i quali servono soglie dimensionali non grandissime ma sicuramente più elevate di quelle correnti, strutture patrimoniali più equilibrate, modelli di business più aggressivi».

Il secondo grande ostacolo che si troverà ad affrontare l’economia veneta, sempre secondo Giovanni Costa, è di ordine prevalentemente demografico: l’inverno della natalità rischia di presentare un conto molto salato per l’organizzazione del lavoro dei nostri distretti industriali. Se fino a qualche anno fa le imprese soffrivano una mancanza cronica solo di profili tecnici, di figure specializzate, con questo trend demografico, da qui ai prossimi dieci anni, il Veneto non sarà in grado di garantirsi nemmeno un ricambio occupazionale nella parte bassa della piramide del lavoro.
«Sono insufficienti i flussi migratori in entrata, non riescono a compensare i trend demografici caratterizzati da invecchiamento e bassa natalità; pericolosi quelli in uscita perché coinvolgono giovani ad elevata scolarità che le nostre imprese non riescono ad attirare, a trattenere e a valorizzare».

Gli scenari da anticipare? Demografia in affanno, e un sistema scolastico e un mercato del lavoro che si dovranno confrontare sempre più velocemente con le competenze e le professionalità imposte dalla nuova frontiera tecnologica, energetica ed ecologica.
«Il Veneto ha le potenzialità per affrontare queste transizioni e per trarne profitto, dovrebbe però aumentare la consapevolezza di queste potenzialità giocando un ruolo propositivo a livello sia economico sia istituzionale. A questo fine, imprenditori e politici veneti dovrebbero smettere di chiedersi cosa può fare l’Italia per la regione e cominciare, senza aspettare i tempi ormai biblici dell’autonomia, a dimostrare cosa può fare il Veneto per il Paese. E non è poco».

Un altro filone di riflessione che ritorna ciclicamente in auge concerne la grande “questione bancaria veneta”, un dibattito non solo ad uso della classe dirigente, tutt’altro, visto che ha colpito pesantemente i risparmi decennali delle famiglie venete (e non solo). Quello che è successo nella finanza veneta negli ultimi quarant’anni, dai fasti della Banca Cattolica fino alla liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, è una storia incredibilmente lunga e complessa. Un dato di sintesi è comunque incontrovertibile: da qualsiasi angolazione si guardi la vicenda degli “schei”, alla fine della fiera il Veneto ha via via perso tutte le sue banche (e assicurazioni) più grandi. Questa condizione produrrà qualche effetto sul futuro economico e produttivo del Veneto? O invece la vicinanza geografica delle sedi centrali poco conta ai fini dell’erogazione del credito buono per le imprese meritevoli? Il parere di Giovanni Costa su questo punto è assolutamente fondamentale:
«I centri decisionali del sistema creditizio e finanziario più che a Milano si sono spostati a Francoforte e a Bruxelles, dove comandano gli algoritmi. Le aggregazioni bancarie, quelle volontarie e quelle indotte, hanno consentito un rafforzamento della struttura patrimoniale e della capacità di fornire servizi di qualità degli istituti di credito italiani. Non c’è ancora stato un adeguamento della struttura patrimoniale delle nostre imprese, in larga misura troppo dipendenti dal credito bancario a causa della loro inadeguata capitalizzazione. Le banche potrebbero avere un ruolo nell’accompagnare le imprese in questo riequilibrio patrimoniale e dovrebbero impegnarsi di più in questa direzione. Forse le cose più interessanti possono venire da una certa vivacità imprenditoriale che il Veneto sta dimostrando in questo settore, con la nascita o la trasformazione di nuove realtà finanziarie disponibili a nuove modalità operative nel campo del credito, dei finanziamenti a medio lungo termini, della raccolta di capitali di rischio; nel private equity; nell’accompagnamento dei processi di aggregazione e di crescita delle imprese. Certo, Conegliano o Treviso o Vicenza non sono Londra o Parigi e nemmeno Milano, ma il loro peso futuro mi sembra destinato a crescere».

Chiuso il capitolo bancario, manca all’appello il punto di vista di un altro protagonista della vita economica veneta più recente, questa volta lato sindacale. Chi meglio del vicentino Luigi Copiello può interpretare la metamorfosi dei capannoni veneti, dagli anni ruggenti di Timisoara ottava provincia veneta ai mesi più recenti del boom dello smart working. Una vita nel sindacato metalmeccanico, nella Cisl si è occupato molto di flessibilità dell’orario di lavoro e di inquadramenti professionali; ha contributo anche a mettere in piedi il primo ente bilaterale nell’artigianato. Con l’autore di “Manifesto sulla metropoli del Nordest” iniziamo dall’idea originaria: come si caratterizza la “Zaiaeconomics”?
«Lo avete già scritto, lasciar fare. Che va benissimo per carità, è un pensiero che ha una storia culturale antichissima alle spalle. Da noi in Veneto si mescola addirittura ad un retaggio antropologico: nessuno deve mettere il becco in “casa nostra”, la sacralità dei confini dei campi, la terra che si eredita. Ci avrei scommesso che Zaia non avrebbe reintrodotto l’Irpef regionale, figuriamoci. Questa visione si è trasferita in economia e la politica l’ha interpretata al meglio, garantendo successi politici straordinari per chi l’ha impersonata. Finché l’economia tira, finché non esplodono le contraddizioni di un modello di sviluppo a fine servizio, tutto questo va benissimo. C’è una assoluta continuità tra Zaia e i vecchi democristiani: basso profilo, lasciar fare e campo libero a tutti gli “spiriti privati”.
Temo però che le sfide che abbiamo di fronte al naso ci imporranno grandi cambiamenti, anche tra le nostre vigne e i nostri capannoni».

La più importante delle sfide, quella dell’attrattività, richiede un insieme di caratteristiche socio-economiche di sistema che vanno ben oltre la competitività e l’originalità del saper fare tipica delle nostre aziende export-oriented.
«Un tempo era la fabbrica a disegnare il territorio. Nel vicentino, la Lanerossi ha modellato non solo Schio, ma anche Dueville, Torrebelvicino, Piovene, Arsiero, Marano. Era la fabbrica che portava la ferrovia, le strade, non il contrario. Il territorio era a completa disposizione dell’impresa. “
El capanon? Fao dove che te ve meio”, questa era la risposta dei sindaci veneti. Il futuro ribalta completamente questo paradigma: è il tessuto sociale che modella le imprese e le condizioni per farle rimanere ed investire».

In una parola: la competizione diretta tra le piattaforme territoriali, per usare le categorie del sociologo Aldo Bonomi.
«Qual è l’indicatore dell’attrattività di un territorio? I flussi demografici. Dove si formano e dove scelgono di lavorare i giovani? Questo determina il nuovo sviluppo.
Il Veneto è la seconda regione d’Italia per migrazioni verso l’esterno. Addirittura molti immigrati che sanno fare un lavoro se ne vanno. Già oggi le aziende venete si contendono senza esclusioni di colpi la manodopera specializzata a disposizione. Non guardiamo a Milano che è fuori scala, guardiamo all’Emilia che ha una taglia simile alla nostra. Un esempio? Dal primo settembre del 2021, in Emilia il trasporto scolastico è gratuito fino al diploma».

Demografia&Schei dunque. Chi lo avrebbe mai detto, anche solo nei primi anni del Duemila, che una delle avversarie più toste delle nostre multinazionali venete tascabili, da decenni in grado di sbaragliare competitor europei, cinesi e americani, sarebbe diventata proprio la natalità zero. Prendiamo il caso di Bassano: una popolazione sempre più vecchia, un’età media di 46,6 anni. Nel 2020, un quarto dei bassanesi aveva già compiuto i 65 anni, il 9% ne aveva più di 80. Su 100 giovani con meno di 15 anni ci sono quasi 200 anziani over 65.
Queste percentuali aumenteranno ulteriormente nei prossimi 10 anni, quando le generazioni dei baby boomers supereranno la soglia dei 65 anni.
Per queste ragioni demografiche la competitività dell’economia del Veneto non potrà che giocarsi anche su una politica “smart” dei flussi in ingresso, intra ed extra nazionali, che sia in grado di attirare fasce sempre più ampie di giovani ad alta scolarità.

L’esperienza del polo Intel a Verona potrebbe essere una buona cartina di tornasole per misurare l’indice di attrattività del Veneto? Risponde Luigi Copiello:
«Bisogna capirci di più. Siamo sicuri che nasca la Silicon Valley veneta? Dei 6.000 lavoratori potenzialmente occupabili, quanti saranno ingegneri o tecnici? Sarà un distretto solo di assemblatori o anche di progettisti? Di sicuro, per fare un paragone a noi vicino, il supercalcolatore di Leonardo in Emilia farà arrivare in quelle zone ogni “ben di Dio” in termini di competenze di altissimo livello».

Per un’ultima analisi ricca di retroscena, frutto di un ragionamento politico originale (impossibile da riportare per esteso) e valido per decifrare anche i passaggi “ombra” della storia recente dell’economia veneta, bisogna andare a Padova, ospiti di Settimo Gottardo, oracolo democristiano, meta di pellegrinaggi costanti di tanti potenti che contano qualcosa in Veneto. È l’ultimo giro di boa per chiudere questo viaggio nella “Zaiaeconomics”.
«Il policentrismo veneto aveva una base culturale ben definita: sette province, sette sorelle, sette doti. L’interporto, l’autostrada, le banche, la zona industriale, equamente suddivise per “presunte” vocazioni. Addirittura, ogni comune aveva la sua dote, nelle frazioni si costruivano anche le zone artigianali. Erano l’espressione di una programmazione durata tutti gli anni Sessanta, che coinvolse comuni, province, casse di risparmio, camere di commercio».

Gli anni Sessanta del centrosinistra, della programmazione nazionale di Giorgio Ruffolo, di Innocenzo Gasparini, economista della Bocconi (docente anche a Padova e Venezia) che fu il lungimirante direttore del Comitato per la programmazione economica del Veneto. Nel 1963 scrisse i “Primi lineamenti di un piano di sviluppo economico del Veneto”, un documento fondamentale per disegnare l’indirizzo dell’economia regionale dopo l’avvio delle regioni; testo in cui, tra le tante proposte, si anticipava già allora la necessità di un’arteria autostradale come la Pedemontana Veneta.
«Il Veneto dagli anni Ottanta è un’unica area industriale ed economica, Montebelluna collegata alla logistica di Rovigo, Venezia con Padova, Vicenza con Treviso. La verità è che un tempo però il Veneto decideva in proprio i suoi investimenti. Un esempio? Le autostrade se le è fatte da solo, sono state invenzione come detto degli enti locali, delle province, dei comuni, delle casse di risparmio. Già in origine il policentrismo era concepito per essere superato da un Veneto che progressivamente si ampliava fino a saldarsi in un’unica grande area economica larga oltre i confini nazionali. La grande idea di Antonio Bisaglia: unire economicamente il Veneto alla Baviera».

A questo punto la storia fa un salto indietro di quasi cinquant’anni, un abisso temporale per i canoni contemporanei della politica clickbait.
«Bisaglia lo uccidono, nel vero senso della parola. Teorizzava una forma moderna di autonomia politica ed economica del Veneto dentro ad un contesto europeo, dalla Baviera a Venezia, fino giù a Porto Tolle. Prima lo fanno fuori mediaticamente con le voci sull’autostrada “Pi.Ru.Bi” (Piccoli.Rumor.Bisaglia): una campagna mediatica studiata a tavolino, storpiavano il nome in “chi più ruba…”.
Lo sostituisce Carlo Bernini, l’inventore di Alpe Adria, capo veneto della corrente dorotea, un leader che portava a pranzo ad Asolo Franz Josef Strauß, il potentissimo presidente della CSU tedesca e della Bavaria. Passa un decennio e Bernini lo anestetizzano facendolo ministro a Roma, addio CSU veneta, addio autonomia politica ed economica. Poi arriva Tangentopoli e distruggono tutto.
L’altro leader veneto, Gianni De Michelis, invece lo assassinano moralmente, gli tirano le monetine per le calli di Venezia. Nel frattempo, per imbrigliare politicamente le ambizioni del Veneto si inventano “da fuori” il mito del Nordest, una costruzione immaginaria. Giorgio Lago e il Gazzettino tentano di ideologizzare il policentrismo quando in realtà era già ampiamente superato, invocano alle virtù del “piccolo è bello”. Un’operazione alla Metternich, inventano il Nordest e archiviano il Veneto, guai anche a nominarlo. Dal quel momento diventiamo solo un’espressione geografica. Hanno metodicamente cercato di distruggere l’identità veneta, nel frattempo si portavano via i giornali (la voce…), vendono le società autostradali.
Nonostante tutto, l’economia manifatturiera del Veneto si salda comunque al resto delle grandi aree industriali del centro Europa. Qualcuno si inventa anche qualcosa di folkloristico per intorbidire le acque della politica: l’assalto al campanile di San Marco, il “tanko”.
Nell’indifferenza generale spariscono le casse di risparmio, le banche regionali, spariscono gli “schei”, quelli di cui parlava Gianantonio Stella. Homo sine pecunia imago mortis, diceva il mio parroco».

Passaggi lontani, alcuni lontanissimi, che però si legano uno dopo l’altro con l’attualità di un “gigante economico” in cerca di un copione da recitare per continuare a sedersi ancora nei primi posti delle aree più dinamiche d’Europa.
«In realtà il Veneto è una grande Regione d’Europa, con Milano e Bologna ha sostituito il vecchio triangolo industriale ad Ovest.
Per fortuna storicamente il Veneto guarda all’Europa delle Regioni, perché l’alternativa sarebbe ancora un’Europa che guarda agli Stati, all’”orbanismo”.
Gli industriali lo hanno capito, hanno fatto una Confindustria unica. Mancano Vicenza e Verona, ma con la Pedemontana il processo di riunificazione sarà inevitabile».

Resta ancora una pennellata di ragionamento per capire se in qualche modo si sta ancorando nel tessuto regionale una visione di prospettiva della politica economica.
«Bisogna evitare quello che la più raffinata sociologia politica chiama “processo di auto-monumentalizzazione” di una classe dirigente, sarebbe molto rischioso. Innovazione e cultura, il futuro si gioca su questo binomio: per questo non è più possibile rimandare la creazione di un grande Politecnico veneto e di un grande Museo Veneto della Scienza e della Tecnica. Dove i veneti possano immaginarsi nel futuro senza autocompiacersi. Sai però qual è la mia più grande paura per il futuro? L’inverno demografico, in tutti i sensi. Davvero vogliamo correre il rischio di morire soli e magari anche razzisti?».


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