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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

Nicola Lagioia al Piccolo Festival

A conclusione della rassegna bassanese dedicata alla letteratura un a tu per tu con l’autore di Riportando tutto a casa

Pubblicato il 28-06-2011
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Brassaï. L’occhio di Parigi

L’appuntamento di chiusura di questa ottava edizione del Piccolo Festival della Letteratura, un’edizione felice, seguita e molto apprezzata dai lettori bassanesi, ha visto protagonista sul palco di Palazzo Bonaguro Nicola Lagioia. Lo scrittore ha presentato il suo libro, Riportando tutto a casa, e dialogato con Mattia Pontarollo di Palomar seguendo le traiettorie di tanti temi, anche legati all’attualità, il suo un contributo generoso e disincantato – com’è nel suo stile – alla riflessione, e insieme un omaggio grato ai tesori della letteratura.

Nel tuo romanzo racconti un periodo di “vuoto pneumatico” in cui si mescolano le storie, quelle dei ragazzi protagonisti e della loro una città – una città esperienza dici tu – con la Storia dell’Italia degli anni ’80. Visto da questa prospettiva, da qui e da adesso, quel periodo ha portato davvero a una mutazione antropologica, o si è trattato solo di un cambio d’abito a cose note?

Nicola Lagioia e Mattia Pontarollo a Palazzo Bonaguro


La mutazione antropologica, per dirla con Pasolini, c’è stata davvero. Negli anni ’80 di fatto è finito il Novecento, il secolo breve. E’ un decennio che non sembra costellato di grandi eventi ma lo scarto c’è stato, è accaduto, e chi è nato in quegli anni usa un’altra grammatica rispetto alle generazioni precedenti. In realtà in quel periodo c’è stato un riassetto degli equilibri mondiali, è finita l’Era del mondo diviso in due blocchi; in Europa nell’1989 abbiamo sentito tutti il crollo del muro di Berlino; a Torino c’è stata la marcia dei 40 000, un primo segnale cambiamento di rotta che ha visto i colletti bianchi scendere in piazza coi padroni invece che con gli operai; è poi stata l’epoca dell’invasione delle televisioni commerciali, del parcheggio in tutte le case di Drive in – e da Drive in a Ruby il passo è stato breve –, nell’81 abbiamo seguito tutti la tragedia di Vermicino in quella diretta agghiacciante, un’alba della tv del dolore che culminerà con lo spettacolo della morte allo stadio Haysel, e già proliferavano i germi della videocrazia. L’impressione è che il nostro Paese sia sempre impreparato al nuovo, che gli italiani non facciano tesoro di quello che accade identico prima e altrove, che non si curino dei segnali e degli insegnamenti. L’Italia è un laboratorio dove tutto accade come inedito, è indubbiamente un posto non semplice per viverci dentro, ma è molto interessante da raccontare. Nel romanzo metto in rappresentazione lo spirito del tempo così come lo sentivo io, ricordo lo ieri dei ragazzi baresi negli anni ’80 e l’attraversamento di una linea d’ombra che sarebbe cara a Conrad. Protagonista è un gruppo di giovani che appartengono come me alla prima generazione che non può più avere le stesse aspettative dei padri: solo in campo sessuale, i nostri genitori avevano come imprinting le immagini di Maria Schneider e di Ultimo tango a Parigi, noi siamo cresciuti al rintocco funebre degli spot “Attenzione:sesso=Aids”.

In Nichel è presente anche l’antologia Anteprima nazionale una raccolta di racconti sull’Italia futuribile curata da Giorgio Vasta. Ci regali un tuo breve racconto, una pre-visione – tu che sei anche un attento osservatore dei fatti italiani e non solo – sul futuro del nostro Paese “unito da 150 anni”?

Siamo nell’epoca in cui dopo il grido “no future” è invece rivoluzionario cercare di costruire qualcosa, e il modello diventa non Sid Vicious ma i Padri Costituenti. Si sente forte la mancanza del passaggio del testimone tra le generazioni, si è costretti a farsi bastare la costruzione di un’identità orizzontale. Per stare nell’attualità e per dirla un po’ con Gaber il problema non è il berlusconismo, “ma il Berlusconi che è in me”. E’ provato che i Paesi che hanno investito di più, nonostante la crisi mondiale, in ricerca e cultura sono stati i primi a registrare una ripresa, non è il nostro caso. Ci sono forti segnali in Italia di sfiducia, di volontà di rinnovamento, l’impressione è che l’elettorato sia più maturo dei suoi rappresentanti, che chieda di partecipare e di sentirsi intorno la volontà di costruire, più che lo svelamento di un uomo-provvidenza. A Roma in questi giorni è in atto l’occupazione del teatro Valle, vi partecipano in tanti e non è solo una rivendicazione di fondi, ma anche di garanzie di rispetto di un teatro caro. E’ uno dei segnali di un fermento nuovo che dichiara la voglia di muoversi assieme, non di attendere seduti l’onda perfetta. Il racconto che dici tu non è scritto, e mi piace che non lo sia, perché altrimenti la pre-visione sarebbe anche predeterminata, invece è interessante l’arbitrarietà della sua costruzione.

Un difetto nella visuale di noi italiani è talvolta una sorta di presbiopia retrospettiva, si vedono nitide le vicende del passato e più sfocati i fatti della storia recente: quanta importanza ha il ruolo della narrazione, degli autori, nel ridefinire i contorni, e nel contribuire a storicizzare lo sguardo collettivo?

Il rapporto tra narrazione e storiografia è interessante perché la letteratura dà uno sguardo obliquo ai fatti. Nei romanzi c’è stata spesso la rivelazione anticipataria, concentrazionaria di sintomi e di suggestioni che poi si sono attuati nella realtà. Kafka parlando d’altro ha previsto l’avvento del nazismo, nel cinema la filmografia sugli Ufo evocava gli spettri dell’Unione sovietica, Godzilla incarnava gli incubi del nucleare. L’arte spesso mette in scena rappresentazioni il cui titolo dato a posteriori potrebbe essere diverso da quello scelto dall’autore. La mia Bari nel romanzo è una città di provincia vista e insieme rappresentata, non mi interessava raccontare l’era di Craxi, ma nella “Bari da bere”, quella arricchita dal boom economico, c’è in filigrana anche lui. Il ruolo degli autori non si sostituisce a quello degli storici, ma lo integra perché ha la possibilità di seguire traiettorie diverse, a volte imprevedibili.

In un bell’articolo che hai pubblicato sul blog della minimum fax si parla dei giovani scrittori. Nel testo, e attualizzando la frase, si trova scritto “Nel 2011, rivendico la possibilità di essere giovane (o vecchia) e scrittrice, non giovane scrittrice”. Tu sei un editor, le etichette in letteratura non servono al nuovo, a rompere gli schemi

In letteratura le etichette di questo genere non hanno ragione di esistere, ci sono scrittori giovani che scrivono come sessantenni e scrittori anche esordienti in tarda età, come ad esempio Gesualdo Bufalino, che hanno la freschezza di pensiero di un ventenne. Diventa un canone estetico parlare di “giovane scrittore” invece che di “scrittore giovane”, la definizione in questo genere di categorie ha più a che fare con la moda, in letteratura le carte sono molto più scombinate.

Il Piccolo Festival ha proposto quest’anno un esercizio di memoria storica letteraria, e invitato i lettori a racchiudere in un elenco i libri che ci hanno resi più italiani. Qualche titolo che aiuti a suddividere in capitoli il 150°, un contributo per il 15x10?

Ecco il mio elenco: La coscienza di Zeno di Italo Svevo; Sommersi e salvati di Primo Levi; Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa; Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino; La vita agra di Luciano Bianciardi; Gli indifferenti di Alberto Moravia; Seminario sulla gioventù di Aldo Busi; Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino; Il partigiano Johnny e Una questione privata di Beppe Fenoglio, e infine Troppi paradisi di Walter Siti.

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