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Laura VicenziLaura Vicenzi
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Teatro

Nell'Eden della parola, con Anagoor

Venerdì 5 agosto, Operaestate Festival ha presentato al Teatro Remondini Ecloga XI, l'omaggio della compagnia Anagoor al poeta Andrea Zanzotto

Pubblicato il 07-08-2022
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Elena Pavan

Venerdì 5 agosto, Operaestate Festival ha presentato al Teatro Remondini lo spettacolo della compagnia Anagoor Ecloga XI, un omaggio all’opera del poeta Andrea Zanzotto, del quale dall’anno scorso si celebra il centenario dalla nascita.
La coproduzione, oltre a Operaestate, ha coinvolto il centro di ricerca teatrale trentino Centrale Fies, la Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, Emilia Romagna Teatro e Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi.
Il titolo dello spettacolo è ispirato alla raccolta di versi IX Ecloghe che Zanzotto pubblicò nel 1962, definite dall’autore “un omaggio presuntuoso alla grande anima di Virgilio”, in particolare alle sue dieci egloghe delle Bucoliche. Il Maestro a cui guardò Zanzotto è quello che produsse componimenti poetici ispirati alla visione idealizzata e idillica della vita condotta in armonia con la natura; a lui, andava l’invocazione del poeta trevisano, in un momento storico in cui la realtà era percepita come minacciosa nei confronti dell'uomo e la tecnologia sconvolgente per le strutture della percezione umana. A distanza di sessant’anni, Anagoor nella sua rappresentazione di una XI ecloga fantasma ha inteso creare un dialogo mimato con l’opera di Zanzotto — che si conclude con Appunti per un'ecloga e un ultimo componimento, scritto in Francese, intitolato Bleu.

Anagoor in Ecloga XI (foto di Giulio Favotto)

L’inizio dello spettacolo è annunciato da luci a effetto stroboscopico e dalla voce di Luca Altavilla che interpreta con la giusta follia più che liturgica da predicatore di una setta Recitativo veneziano, opera commissionata da Fellini a Zanzotto per il suo Casanova. Lo stacco con la prima scena all’apertura del sipario è netta. Due figure si stagliano nell’ombra, quasi in una grotta nativa i moderni Adamo ed Eva sostano davanti a un pannello che riproduce La tempesta, di Giorgione, opera cara nella drammaturgia di Anagoor. Stanno come davanti a una finestra che inquadra un paesaggio da Eden perduto. Manca la presenza umana nella riproduzione del dipinto, e non c’è la figura di donna col bambino che ricomparirà in vesti umane solo al termine dello spettacolo.
I due attori, Leda Kreider e Marco Menegoni, guardano l’opera e parlano tra loro della deriva del presente umano e del paesaggio odierno, traviato ovunque da asfalto e capannoni e oltraggiato in ogni modo possibile. Dal cielo in tempesta, incombe una minaccia che sovrasta contemporaneamente il luogo e la lingua: Menegoni toccando quello che è diventato solo uno schermo e in parte una lavagna che inquadra uno scorcio di paesaggio ha recitato con maestria i frammenti di Meteo, citando relitti piovosi e ricerche del verde che ribadiscono quanto visionaria e attuale sia l’opera di Zanzotto.
In seguito, l’accento è stato posto sul collasso della lingua, sull’incapacità di dire questa realtà, e l’attore denudato ha recitato Collassare e pomerio: il linguaggio è arrivato al confine, impugnando un pennello intinto nel nero come in un atto blasfemo l’uomo ha profanato la tela e cancellato la sua opera stessa. È arrivato il tempo del disorientamento, in cui si confondono il passato e futuro (il “fuisse umano”) e poi del salvifico Improvviso ritorno al tu. Con Eva, il viaggio conduce alla lettura a due lingue, in traduzione, della lettera a Claude Eatherly di Günther Anders — l’aviatore che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, l’ascolto alla vigilia del triste anniversario anche se non dovrebbe suona più forte — scritta il 3 giugno 1959, legata al trauma dei crimini di guerra e alla questione del “ducere” che Zanzotto introdusse in Eatherly, nelle Ecloghe. In sala ritornano luci stoboscopiche e musiche inquiete a sottolineare spaesamento e dramma, se servisse.
In un passaggio del testimone, infine anche Eva a specchio si denuda e in un paesaggio da Antropocene d’altrove lentamente avviene una rinascita: in quello che è l’espediente scenografico più a effetto, sbocciano germogli in rigoglio, un tripudio di verde, e arriva un bambino a cui la mamma che lo allatta di giorgionesca memoria, immagine della “lattea sicurezza”, si rivolge cantilenando, quasi lallando, mentre il giovane Adamo un po’ in disparte la guarda. Lei gli parla con quel “petèl” tanto caro a Zanzotto che sembra una lingua germinale in grado di cancellare il nero inchiostro, e di dire il mondo in modo nuovo.
Simone Derai, che ha curato anche scene e luci, e che ha costruito la drammaturgia insieme a Lisa Gasparotto, ha rinunciato in questo spettacolo all’utilizzo delle immagini che ha spesso costituito la cifra di molte opere teatrali di Anagoor, evitando il sovraccarico con il linguaggio altamente evocativo e ricco di visionarietà di Zanzotto. La musica di Mauro Martinuz ha accompagnato come un’aria discreta e con grazia le parole della poesia, che non amano altra musica che la loro, e sottolineato l’andamento drammaturgico delle scene.
L’interpretazione intonata dei versi di Zanzotto da parte di Menegoni, priva di fastidiose enfasi ma potente, che pone gli accenti giusto dove va accesa, ha restituito l’incanto dovuto alla lingua del poeta. Questa undicesima ecloga ha seguito la traiettoria dell’attitudine al frammento, o meglio, al conglomerato dell’ultimo Zanzotto, che in scena non è sempre di facile riuscita. È un’impresa trasporre con una lingua che non sia quella originaria la tensione alla trinità io-linguaggio-paesaggio che ha fatto da guida all’opera del poeta. L’omaggio è apparso in ogni aspetto sentito e frutto di uno studio profondo, come consuetudine e cifra della compagnia di Castelfranco Veneto.
Indovinati gli spunti di parallelismo con il presente e i richiami a un’attualità preoccupante, che chiama parole esatte e sbrigliate da dettami di legalità, parole che forse sanno solo i poeti, per essere compresa, vista nella sua ferocia e detta.

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