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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Modalità lettura 1 - n.17
La recensione di Febbre, di Jonathan Bazzi, finalista al Premio Strega 2020
Pubblicato il 19-07-2020
Visto 1.851 volte
Febbre (Fandango, 2019, pagine 328, 18.50 euro) è il libro di Jonathan Bazzi entrato a far parte dei finalisti del premio Strega 2020 — settantaquattresima edizione — come sesto libro in corsa per la vincita, il tutto a seguito di un’applicazione fedele del regolamento che ha generato articoli e discussioni anche polemici.
Fuori dalle dinamiche del concorso e delle operazioni di mercato, il libro può attirare non tanto per la fascetta ma per il titolo in copertina (soprattutto di questi tempi) che potrebbe aprire le porte a un bel racconto fantascientifico tendente al pandemico di quelli da Urania o a un viaggio di quelli nella nostra stanza alla Sterne sulla via del lisergico. Niente di tutto ciò, ma leggere il romanzo di Bazzi senza conoscere la sua storia aiuta, almeno nei primi capitoli. Chi ha l’abitudine di non farsi guidare dai saggi introduttivi — l’anatomia dei libri non è la stessa ovunque, altrove si trovano giustamente alla fine — né dai risvolti di copertina può avvicinarsi a questa storia autobiografica senza pregiudizi non tanto riguardo ai temi che tratta, ma nei confronti della narrazione imbastita dall’autore della sua vita. I brevi capitoli si susseguono in alternanza: a parlare è Jonathan da piccolo via via in crescita e poi Jonathan adulto alle prese con una febbre che non se ne va.
Talvolta questa struttura a doppio binario ingabbia, perché si avrebbe voglia di seguire meno frammentate le vicende del bambino di Rozzano (detta Rosangeles, Milano sud) spesso in difficoltà oppure del giovane Jonathan ugualmente spesso in difficoltà: la tentazione sarebbe quella di sovvertire l’ordine di lettura, ma per rispetto si prosegue come stabilito da chi scrive. In conflitto si va anche quando tra i ricordi d’infanzia di un nativo 1985 si trovano elencati nomi, personaggi e atmosfere che appartengono a chi è nato vent’anni prima (una per tutti, l’appuntamento all’edicola con i dischi di fiabe sonore che iniziano con A mille ce n’è…, ma saranno state ristampe). L’occasione per raccontare questa giovane vita è la scoperta della malattia, o meglio, di una sieropositività da HIV — sì, c’è di mezzo un virus anche qui — ma a far ammalare davvero l’autore è il lungo periodo di sofferenza soprattutto mentale trascorso senza diagnosi, la mancanza di orizzonte del suo malessere che solo in minima parte medici e sistema sanitario contribuiranno poi a rischiarare. La chimica, è l’aiuto concreto. Nel mezzo, anni trascorsi in un luogo difficile, odiato e amato, “veleno e antidoto” di quelli che ti si tatuano sulla pelle ma nell’economia dei luoghi geografici si riducono a un Cap; una famiglia difficile ma in parte amorosa, dove emergono le figure di una madre bellissima e guerriera e di una nonna napoletana saggia e piena di vivacità: bene le donne, 0- gli uomini; tanti “tipi” intorno ma forti difficoltà di relazione e scolastiche motivate con una balbuzie rivelatrice di altri inceppi superati solo in parte grazie a un duro lavoro che ha portato anche alla laurea in filosofia e oltre; innamoramenti assoluti e platonici verso ragazzi dai visi angelici e ricerca affannosa di partner sconvenienti sulle chat di internet, il tutto sfociato in una relazione monogama e felice con Marius.

Rozzano (Milano)
L’immersione nella vita del personaggio Jonathan è molto visiva, infatti si è subito fatta avanti l’offerta di una trasposizione cinematografica della storia.
Sono lontani i diari di guerra spietati di scrittori malati che hanno narrato in cronache da presa diretta, ma non senza un filo di ironia, il loro calvario; si scorge invece traccia di quella narrativa ottocentesca che affermava che i mali del corpo proiettano una patologia sociale.
Niente di troppo premeditato nel libro, pare, che scorre veloce con una scrittura senza ricerca di sguardi a picchi e abissi, se non fosse inframmezzato dai cambi dei due binari narrativi si leggerebbe d’un fiato.
Il fatto che l’autore affermi pubblicamente “il personaggio Jonathan sono io” per la sua vita è un atto di coraggio, anche se Bazzi afferma di no: per lui era un atto dovuto.
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