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Da Fastro al Brasile: storia dell'identità veneta oltre oceano

L'inizio non è mai facile quando si scappa dalla miseria. Preservare una comunità con senso di appartenenza, unione e aiuto reciproco. Scopriamo il ruolo che la cultura veneta ha giocato nel duro e nuovo contesto brasiliano di fine '800

Pubblicato il 24-05-2022
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Cos'è un rifugiato ambientale?
Secondo l'OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), appartengono a questa categoria
Persone o gruppi di persone che, per ragioni legate ad un cambiamento ambientale, improvviso o progressivo, che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare il proprio territorio temporaneamente o definitivamente, e che perciò si spostano dentro al loro paese o ne escono.

Foto: Nicola Dall'Agnol


Le aree che più soffrono e soffriranno a causa di queste alterazioni si trovano in Africa, Asia e Oceania, eppure talvolta non serve spingersi tanto lontano per trovare realtà simili.
Questi luoghi appartengono molto spesso al passato. La loro vicinanza geografica trasforma però le previsioni, le cui cifre ci sembrano tanto astratte e lontane, in qualcosa di sorprendentemente concreto e tangibile. Conosciamo infatti nomi e cognomi delle persone coinvolte, sappiamo che parlavano un dialetto molto simile al nostro e che vivevano a pochi chilometri dalle nostre case. Sono sagome che prendono forma e hanno una storia che è già stata raccontata.
Facciamo un passo indietro e chiediamoci com'era l'Italia di fine '800: un regno nato da poco e già colpito da una crisi profonda.
Soprattutto al nord est - in contrapposizione al sud, al tempo ricco e pieno di risorse - alcune difficoltà legate alla terra, come densità demografica e soprattutto mancanza di materie prime, avevano generato una vera e propria carestia.
Nicola Dall'Agnol, giovane fastrese con cui ho avuto la fortuna di parlare, mi racconta che poco lontano da Fastro, nel bellunese, e più precisamente a Rocca di Arsiè, a metà '800 ci fu una battaglia per il grano. All'epoca le persone più povere si ammalavano di pellagra, di colera o di tifo.
Animata da questa profonda crisi e dai decessi a cui assisteva ogni giorno, la gente preparava la valigia e partiva. Qualsiasi via di fuga che desse un po' di speranza al futuro veniva imboccata.
Nel caso di Fastro, un primo gruppo di famiglie, nel 1876, compí quella che potrebbe essere considerata un'epopea. Queste persone infatti presero dei carri, partirono, e arrivarono fino a La Rochelle, nella parte atlantica della Francia. Da lì, dopo all'incirca un mese e mezzo passato a bordo di imbarcazioni non molto sicure, arrivarono a Porto Alegre, in Brasile. Si stima che all'epoca una famiglia su due partisse, oggi infatti molti borghi dell'area sono spopolati.
E perché il Brasile?
Questo paese era all'epoca una terra vergine e sotto popolata, c'era quindi necessità di costruire infrastrutture e di convertirlo in una società. L'Italia prese la palla al balzo e stipulò delle convenzioni con il Regno del Portogallo, che era all'epoca al controllo del Brasile.
Nacque così una forte propaganda al fine di incentivare la partenza verso le nuove terre: alla promessa di una vita migliore, i migranti, deperiti e assetati di futuro, non esitarono a partire.
Di lì a poco avrebbero però scoperto che quella di un destino florido non era niente altro che un'illusione. Se è vero infatti che ad ogni abitante venivano affidati all'incirca 20 ettari di terra, è altrettanto vero che si trattava di ettari di terreno vergine, assolutamente ostico, popolato da piante selvatiche ed alberi enormi: prima di riuscire a coltivare qualcosa dovettero faticare mesi, sperimentando attrezzature “fai da te” per tagliare legna e dissodare campi.
Considerando il contesto, sorge spontaneo chiedersi come abbiano fatto a resistere, sopravvivere ed emergere da una situazione tanto precaria. Nicola, dopo un viaggio in Brasile alla riscoperta delle sue origini, sembra essersi fatto un'idea in merito, e sostiene che volontà di emergere dalle difficoltà, supporto reciproco e senso di appartenenza siano stati fattori fondamentali per la sopravvivenza della comunità italiana.
Questo spirito di appartenenza è possibile respirarlo tutt'oggi. Sono diversi e svariati infatti gli elementi ad indicarcelo; forse il più facile da rintracciare è quello dei toponimi trapiantati.
Si tratta di nomi propri di luoghi, a cui viene fatto ricorso per colmare la nostalgia - o, in questo caso, la saudade - della terra natale, rievocandola appunto, nonché marcare la propria presenza nel nuovo territorio.
Aggiungendo ai nomi di luoghi piccole alterazioni o elementi aggiuntivi, in questo caso “Nova” o “Novo”, nasce una simbiosi perfetta tra terra natale e paese anfitrione, tra l'universo degli elementi italiani e i molteplici elementi della nuova realtà brasiliana.
Ecco spiegata la presenza di luoghi chiamati: Nova Veneza, Nova Pádua, Nova Verona, e addirittura Nova Bassano, in Brasile.
In queste zone come in altre si parla tutt'oggi il “talian”, dialetto della lingua veneta mescolato al portoghese, comprensibile da tutti gli emigrati; oggi riconosciuto come seconda lingua nella regione del Rio Grande do Sul. Nicola mi rivela infatti di aver parlato sempre e solo in dialetto veneto durante il suo viaggio.
Fino a pochi anni fa, erano ancora diverse le famiglie venete residenti in grandi aree agricole semi abbandonate, soprattutto nelle foreste di Santa Caterina. All'epoca erano considerate come delle piccole tribù isolate, di uomini bianchi, ancorate alle loro tradizioni, riti, usanze e mestieri. La loro presenza nella foresta era talmente peculiare da suscitare l'interesse di antropologi, come Francesco De Melis, che nel 1985 filmò dei bambini “seggiolai” nell'atto di intessere delle sedie, antico mestiere della terra d'origine. Altri video li riprendono nell'atto di mangiare polenta e formaggio: il tempo sembrava essersi fermato al 1800.
Se fino a pochi decenni fa ci si vergognava di essere di origine italiana, giacché italiano significava contadino, straniero, povero ed emarginato, oggi si assiste ad una rivendicazione delle proprie origini. I più giovani ascoltano attentamente i propri vecchi e in alcuni casi si recano in Italia per toccare con mano i luoghi che costituiscono il loro DNA.
In una società ormai così fluida e multiculturale, in cui tutto è talmente veloce da non riuscire talvolta nemmeno a rendersi conto che sia avvenuto un cambiamento, Nicola ci insegna che a volte fermarsi, respirare e prestare attenzione al passato potrebbe rivelarsi di fondamentale importanza per il nostro futuro.

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