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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
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Modalità lettura 1 - n.9
Una recensione di I Miserabili, capolavoro di Victor Hugo che parla da lontano di uomini assetati d’aria, d’azzurro, di cielo
Pubblicato il 03-05-2020
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I Miserabili di Victor Hugo (Edizioni Bur Grandi Classici, traduzione di Valentino Piccoli, 2017, 1354 pagine, 19,00 euro). Si sono versati fiumi di inchiostro su questo “discorso sulla miseria” che fu un best-seller, la cui uscita nel 1862 fu preceduta da un battage pubblicitario che non ha nulla da invidiare a quelli contemporanei — e, per sovrammercato, fu pagatissimo al suo autore.
Suddiviso in cinque volumi, il libro è ambientato in un arco temporale che va dal 1815 al 1832. Hugo ci aveva lavorato per quasi un ventennio, era scappato dalla Francia, dal regime instaurato da Napoleone III, aveva continuato a scriverlo a Guernsey e lo finì in Belgio, in un hotel da cui poteva osservare il campo della battaglia di Waterloo. C’è una storia nella storia riguardo alla gestazione di questo libro, che è considerato uno dei romanzi eccelsi del XIX secolo europeo. Ma non è certo questo aspetto dai tratti editoriali, né può essere la curiosità suscitata da qualche recente miniserie televisiva che circola anche sul web a muovere un lettore odierno, esente da obblighi scolastici, ad avvicinarsi o riavvicinarsi alla sua lettura. Fu amato da Rimbaud. Mette in scena i temi immortali della storia dell’umanità. Dipinge in un affresco la figura degli inetti, con un’inedita modernità. Il suo protagonista è un giusto, un novello Cristo dalla natura sovrumana e dalle debolezze del tutto umane che si fa Maddalena, un buono che soffre per colpa del destino che gli piove addosso e degli uomini. Sì, è tutto questo e mille altre cose ancora. Ma I Miserabili, come tanti altri capolavori della letteratura, cattura perché è un libro-mondo, perché offre una sorta di viaggio-premio che sai di non meritare in una dimensione parallela popolata di storie e di Storia e di personaggi indimenticabili, uomini e donne che avresti voluto incontrare — alcuni da vicino, degli amici, altri per affrontarli con ogni furia possibile — e che qui si ha la possibilità di conoscere tanto in profondità da poterli davvero amare, o odiare, perché ti invitano a salire sul palco del romanzo a vivere con loro.
Hugo, come tutti i grandi scrittori, consente al lettore di essere lì, sempre in fuga sulle strade, i tetti e nelle fogne di Parigi con Jean Valjean e portare con lui nelle tappe di una novella via Crucis tanti nomi intercambiabili che lo dovrebbero nascondere ma mai lo proteggono a lungo dalla cattiveria del mondo. Tra le pagine, si può guardare da vicino sbocciare l’amore tra Marius e l’allodola rinata Cosette; si sale sulle barricate dei parigini rivoluzionari a cantare con il monello Gavroche e a innamorarsi di Enjolras; si arretra, disgustati, quando si avvicinano i Thénardier, quelle anime-gambero fagocitanti che si nutrono di melma, aumentando ogni giorno la loro deformità. Javier, l’irriducibile poliziotto votato all’inseguimento di un ideale di giustizia che non esiste, più che alla cattura di Jean Valjean che però lo ossessiona, non è il vero cattivo: lo Stato delle cose, la città è la vera colpevole, con il suo andamento illiberale, non fraternale, non egualitario, e a guardarlo in profondità… fognario.

dal film omonimo diretto da Bille August
Nei capitoli in cui è diviso il romanzo, tutti divisi in libri e sottocapitoli titolati, sono tanti i personaggi che muove Hugo, e numerose le digressioni che da una parte allontanano la soddisfazione del desiderio del lettore di intravedere la soluzione delle vicende a cui si appassiona, dall’altro offrono una cornice che a tratti, si intravede bene, è il vero motore dell’opera.
Hugo interviene in più parti per esprimere la sua condanna: si indigna per lo stato di schiavitù che affligge il popolo, che contagia di miseria soprattutto donne e bambini — e alla fine ci porta a comprendere un po’ persino i Thénardier; sviscera le ragioni del tutto giuste della protesta civile e accusa il sistema giudiziario che impone pene sproporzionate alla colpa commessa; fa le sue considerazioni sulla vita monastica e sulle ipocrisie della cosiddetta alta società civile e militare. La vocazione all’ossessione di Javier Hugo la conosce bene, e se ne ritrovano le tracce nel capitolo dedicato alla sua celebre ricostruzione della sconfitta di Napoleone a Waterloo.
C’è tanta acqua, oltre alla pioggia di Waterloo, nel romanzo: dall’acqua pulita della fonte dove è costretta a recarsi la piccola Cosette con manine e piedi gelati, ai torrenti di sangue versati in battaglia e sulle barricate, dai rivoli maleodoranti delle fogne che nascondono le sabbie mobili in cui si impantana Jean Valjean fino al fiume che accoglierà l’amara delusione di Javier.
È un mondo in immersione nell’ingiustizia quello che descrive Hugo, popolato da uomini assetati d’aria, d’azzurro, di cielo: niente di così ottocentesco e remoto, a ben guardare.
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