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Di cantautrici donne, che imbracciano la chitarra e cantano le loro pene d'amore, incomprese e struggenti, ne abbiamo viste e sentite una marea. Da Pj Harvey, Suzanne Vega, Ani Di Franco, fino a Cat Power e anche a qualche – a volte pallida a volte ben riuscita – imitazione italiana.
Sharon Van Etten sembra facilmente appartenere a questa schiera: carina, con quella perfetta punta di timidezza e le schitarrate al fondo di una voce dolcemente espressiva.
Sharon Van Etten.
Nata a Jersey, cresciuta nel Tennesse e oggi residente a Brooklyn, Sharon racchiude i cliché di cui sopra, ma allo stesso tempo si smarca dal facile paragone. Dalla sua parte, giocano un'immediatezza e una sincerità disarmanti. “Per me è fondamentale che tutto si mantenga ad un livello strettamente personale” racconta in un'intervista, “vorrei che le persone sapessero sempre che io canto a loro e per loro... che sappiano cosa sento, precisamente”. E fin da subito i testi e le musiche, infatti, raggiungono perfettamente l'obiettivo, raccontando in pieno stile lo-fi (dalla serie: registratorino portatile e via) sprazzi rubati ma precisi d'intimità.
“Epic” è il risultato, splendido, di un percorso lungo due anni, che l'ha portata a girare l'America con un piccolo disco autoprodotto - registrato in casa e confezionato in una custodia fatta con matite, pennelli e buste di cartone del negozio di liquori per il quale lavorava - a raggiungere il Regno Unito per aprire i concerti di Meg baird degli Espers e a conoscere lì Greg Weeks del Hexham Head Recording Studio. Grazie al suo supporto, Sharon realizza il primo disco, sempre autoprodotto. Poi il passaparola cresce, la bella del Tennessee ha l'appoggio di qualche big incantato dalla sua voce, tra cui Kyp Malone, il barbuto dei Tv On The Radio, e arriva appunto “Epic”, sette ricette di vera malinconia: un disco che è già una summa di dieci anni di indie-folk e un precursore di quanto può accadere nei prossimi anni.
La schitarrata alla Tracy Chapman che apre “A Crime”, svela subito i due protagonisti del disco: le sei corde e la voce di Sharon Van Etten. Il testo è un'accusa gonfia di rimpianto nei confronti di se stessa. Come quasi tutte le liriche, al centro sembra esserci una storia d'amore finita malissimo, che ha portato Sharon dal Tennessee a Brooklyn, a cercare fortuna. “Peace Signs” è uno dei momenti più intensi dell'album, una ritmica minimale a battere sui quarti e la solita chitarra di sfondo alla voce di Sharon. Timidi tentativi di riavvicinarsi, in mezzo alla tempesta di tutto il dolore seminato. “Save Yourself”, ballad più classica, altrettanto classico l'invito ad andare avanti, a sopravvivere, come fanno tutti. La pedal-steel guitar è un tocco country delicato ed efficace. “DsharpG”, sorta di intervallo sperimentale tra le due parti del disco, dilatatissima, gospel intimo abbandonato ai flussi del mellotron. Il secondo capolavoro dei sette pezzi arriva poi con la prima, vera, chitarra elettrica del disco: Sharon introduce “Don't Do It” nell'indifferenza dei rumori cittadini, e prepara, a due voci, un ritornello che gira su se stesso, che racconta di come le cose accadono, in fondo e al fondo, perché lo si vuole. Prima del finale mantrico di “Love More”, “One Day” è un'altra ballata country classica, molto americana, rilassata e quasi scanzonata. L'ultimo pezzo, la voce di Sharon sugli accordi di harmonium senza tempo a dipingere il mistero del dolore che fa amare di più, è il finale giusto, lento, trascinato, di un disco da non lasciarsi scappare per nessun motivo.
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