Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
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Teatro

Effetto Popolare

È andato in scena questo fine settimana a Padova, al teatro Verdi, Una Banca Popolare, di Romolo Bugaro. Quando il teatro incontra/si scontra con l'attualità

Pubblicato il 13-01-2020
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Elena Pavan

È andato in scena questo fine settimana a Padova, al teatro Verdi, Una Banca Popolare. Lo spettacolo scritto da Romolo Bugaro e diretto da Alessandro Rossetto è stato prodotto dal Teatro Stabile del Veneto e più avanti approderà al cinema a cura della Jolefilm di Francesco Bonsembiante e Marco Paolini.
Anticipato da forti polemiche dopo l’anteprima di dicembre a Venezia, da incontri introduttivi intitolati "Testimonianza prima di una banca popolare" e da un libretto corposo di 25 pagine, lo spettacolo è andato in scena in cinque repliche e sarà anche protagonista di un incontro che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Padova ha inserito come iniziativa di formazione nell’ambito del programma di “Avvocatura incontra la città”, con gli interventi dell’autore e del regista.
Se ne parla molto, dunque, anche al di fuori dell’ambito dello spettacolo in quelli giudiziario e giornalistico, sicuramente per l’annuncio dello Stabile Veneto che dichiarava di voler presentare con questo prodotto una profonda riflessione sul tracollo della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Un progetto ambizioso, consapevoli di quanto sia ancora aperta la ferita nel sentire comune e nelle tasche delle persone, e quanto siano ingarbugliati l’argomento e le questioni tecnico-giudiziarie che vedono coinvolti, in attesa di un magro rimborso, migliaia e migliaia di piccoli risparmiatori. All’incontro di sabato 11 gennaio al PalaSind di Bassano erano presenti 3000 persone convenute all’appuntamento informativo organizzato da due associazioni nate a tutela dei cittadini truffati dalle banche.

una scena di Una banca popolare (foto di Serena Pea)

Si è trattato di una tragedia, con vittime certe e naturalmente con i suoi colpevoli, alcuni con teste da cerbero. Il teatro da sempre racconta le tragedie, le trasfigura per ampliarle e renderle di tutti. Romolo Bugaro, scrittore-avvocato, ha proposto una lettura della vicenda volutamente parziale, mettendo in luce il ruolo non delle vittime ma dei carnefici. L’angolazione era dichiarata in anticipo dall’autore e affermata nel monologo del personaggio protagonista Gianfranco Carrer, padre padrone della “Banca Popolare del Nordest” (interpretato da Fabio Sartor): non è la povera gente che ha perduto tutto e che si è ammalata per la disperazione ad avere voce nella pièce. Detto questo, si può tornare a guardare ai linguaggi del teatro.
Lo spettacolo inizia con una festa, di quelle tra amici in villa (veneta) a cui si è introdotti per reddito. Un esordio sguaiato, che butta in faccia sperpero, ricchezza e malaffare. Sul palco una parte importante della scenografia è data da uno schermo dove sono proiettate in bianco e nero immagini estratte dalle riprese effettuate per il film. A tutto campo, un gran ballo-palude con gente-caimano su cui si addensano le nubi del disastro. “Escono” dalle immagini ed entrano sul palco Gianni Pirovano, un medico fumatore e depresso (Mirko Artuso), Alessandro Corsato e Manuel Bevilacqua, due imprenditori sull’orlo del fallimento (Diego Ribon e Valerio Mazzucato); Deda, unica donna parlante e moglie del primo (Sandra Toffolatti) — una sorta di desperate Housewife; Alberto Cremonesi, un avvocato soprattutto di se stesso (Davide Sportelli). I dialoghi raccontano a frammenti un sistema di potere malato, con poche sfumature, e l’atmosfera e le musiche della scena del ballo che continua imperterrita sullo sfondo ricalcano (forse un po’ troppo) quelle di La grande bellezza. C’è anche una sorta di ballo del Joker: il rallenty e le movenze di un invitato danzante lo evocano anche a villa Carrer.
Man mano che le conversazioni procedono, si avvertono i tuoni del tracollo da cui solo alcuni si salveranno, quelli stessi che indosseranno in seguito la maschera degli accusatori a tutto campo. Arrivato alla festa, Correr inizia un lungo monologo in cui il padre-padrone accampa le sue difese accusando tutti e tutto, anche l’aria se servisse, tranne se stesso.
La chiamata alla correità c’è, i volti dei personaggi coinvolti a vario titolo nel malaffare diventano maschere indecenti sullo schermo e l’indignazione dello spettatore abbraccia tutta la bella compagnia, presente e assente sul palco.
Le polemiche che hanno investito lo spettacolo al suo esordio hanno a che fare con molti elementi esterni alla narrazione di Bugaro: il fatto che il direttore del Teatro Stabile del Veneto, Giampiero Beltotto, sia stato l’ultimo responsabile della comunicazione prima del crac della Banca Popolare di Vicenza; il fatto che lo spettacolo non sia strutturato come approfondimento circa i cavilli delle responsabilità; il fatto che i più deboli non vi siano rappresentati in alcun modo e che quindi l’etica sia il faro del racconto solo in una prospettiva a contrasto. La denuncia certo non arriva da qui, nessun J’accuse, ed è un altro fatto. Ma togliendo la funzione curativa, medicamentosa ai linguaggi della letteratura e del teatro — che certo non hanno se sono buona letteratura e buon teatro — si può dire che il prodotto anche se appare frammentario ha espresso una buona regia a cura di Rossetto, che prosegue il sodalizio con Bugaro dopo Effetto domino, in particolare è risultato appropriato il paesaggio sonoro curato da Lorenzo Danesin, e che il cast, camerieri compresi, ha interpretato bene il ruolo dei cattivi-quasi-stupiti-di-esserlo. Che ci sia una buona dose di banalità nel male si sa, è cosa nota, la tragedia è anche questa.

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