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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

RedazioneRedazione
Bassanonet.it

Interviste

Intervista all’artista Saul Costa

Protagonista al ciclo di incontri "PaginaPiegata - Intrecci d’arte" di venerdì 22 marzo

Pubblicato il 27-03-2013
Visto 2.766 volte

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Rinascimento in bianco e nero

Saul Costa nasce a Vicenza nel 1974, si diploma in Grafica pubblicitaria e Fotografia. Amplia e completa la sua formazione presso la sezione di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Congiuntamente all’esperienza artistica, da dodici anni si dedica all’insegnamento del disegno e della storia dell’arte presso il liceo scientifico “U. Masotto” di Noventa Vicentina. Dal 1997 ha partecipato a trenta esposizioni, di cui ventidue collettive e otto personali, oltre a vari concorsi a livello nazionale.

I cicli MATERIAOROLUCE, curato da Flavia Casagranda, e SOFFUSE ATMOSFERE DEL REALE, a cura di Mario Guderzo, vedono protagoniste le architetture religiose - cristiane e islamiche - delle città di Istanbul, del Cairo e Venezia. Ci vuoi parlare del ruolo che assumono per te queste architettoniche di matrice sacra?

Un momento dell'intervista al Teatro Remondini

Il filo conduttore degli ultimi quattro cicli pittorici è la ricerca della spiritualità e della sacralità nel legame che unisce l’uomo a Dio. Non è un tema nuovo, esiste sin da quando l’essere umano si è posto il problema di capire il significato della propria esistenza. Le architetture sacre, simboli cardine attraverso cui si manifesta questo rapporto che vede al centro la religione, sono la sintesi di forma, ricerca della spiritualità e divinità.

In questa ricerca è evidente che la luce assume importanza vitale. Per quali motivi?
Il rapporto con la luce è fondamentale perché da sempre l’uomo ha trovato nella luce una fonte per indagare e scoprire la propria esistenza. Dal mio punto di vista è essenziale perché oltre a creare giochi di chiaroscuro e mostrare le strutture portanti dei luoghi sacri, la interpreto come il segno della presenza trascendentale della divinità, di dio. È la divinità che si fa luce.

Quali sono le peculiarità che la pittura ti offre in qualità di medium prescelto?
Mi esprimo attraverso la tecnica tradizionale della pittura ad olio, dipingendo ed impastando le terre, gli ossidi e i minerali come i grandi maestri del ‘500.
Sino ad un anno e mezzo fa la mia pittura si caratterizzava per l’impatto violento e gestuale sul supporto rigido posto verticalmente. Ora è quasi scomparso l’uso del pennello, lavoro con il supporto in orizzontale e il mio lavoro è paragonabile a quello dei monaci tibetani che prendono le polveri colorate e costruiscono un mandala.

Nella serie TRA CIELO E TERRA curata da Anna Petullà e Giovanna Strada metti in scena una personale versione della Torre di Babele, della leggendaria costruzione di cui narra la Bibbia nel libro della Genesi. In che modo la ritieni attuale?
Sono sempre sono stato affascinato dalla storia della Torre di Babele, al di là dell’aspetto biblico. L’idea di intraprendere e portare all’esasperazione questa tematica è nata durante un viaggio in Egitto, un tempo culla della cultura, dell’arte e della religione, oggi terra martoriata, implosa su se stessa, babelica. Dal punto di vista grafico mi sono rifatto all’opera di Pieter Bruegel il Vecchio oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Mi interessava mettere in relazione il dramma dell’esistenza umana, che risale al passato, con la contemporaneità. In un’epoca in cui possiamo essere in contatto con tutti attraverso la tecnologia, la stessa tecnologia diviene l’espediente che divide gli uomini.
Credo che per ricercare la spiritualità perduta dobbiamo tornare alle culture del mediterraneo e visitare quei luoghi fonte della nostra originale identità.

Le immagini di tori, capre, cavalli, centauri e satiri che popolano la serie MINOTAUROS a cura di Anna Petullà e Giovanna Strada sono stati utilizzati come semplici ispiratori formali. Quali significati hanno assunto nella tua ricerca questi animali?
Nei primi studi e viaggi nel mediterraneo alla ricerca delle fonti della nostra identità mi sono imbattuto nell’aspetto bestiale: la ricerca degli animali che venivano sacrificati alle divinità. Sacrificio significa rendere sacro. Da lì è iniziato il ciclo pittorico che vede protagonista l’immagine iconografica di capre, cavalli, ma soprattutto del toro, da sempre considerato l’animale per eccellenza. L’animale era sacrificato, il sangue scendeva nella terra e da lì si rigenerava la vita. Si creava questo rapporto tra l’uomo, dio e soprattutto la vita. Non a caso vicino all’animale c’è spesso un tumulo, la prima forma di sepoltura dell’uomo, che copre i corpi dei propri simili creando un cono che proietta l’essere umano verso la spiritualità, verso Dio.
L’opera più rappresentativa della serie ritrae il leggendario Toro di Falaride, originale strumento di tortura e di esecuzione progettato nell'antica Grecia. Mi aveva colpito l’immagine di una stele vista vicino ad Agrigento che ritraeva un uomo all’interno del toro. In quella forma ritrovo l’uomo all’interno del ventre materno, ma potrebbe essere anche il mio autoritratto. È la persona che diventa partecipe del dramma dell’esistenza.

È evidente che nella tua idea di umanità sei contagiato da quello che vedi attorno: dal senso di vuoto, dalla disperazione umana come dalla grande bellezza. Qual è, oggi, il ruolo e quali sono le responsabilità che credi un artista abbia rispetto alla società a cui è destinata la propria opera?
Parto dal principio che non si può vivere senza arte e che l’artista è un veggente che va al di là delle sensazioni e delle apparenze che normalmente la società può percepire e le esprime attraverso la propria opera, che in molti casi viene rivalutata molto tempo più tardi.

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