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Qui e Ora

Andato in scena a Teatro Remondini, il nuovo spettacolo di Mattia Torre mostra a volo radente maschere e spettri degli Italiani di oggi

Pubblicato il 06-02-2013
Visto 2.642 volte

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Elena Pavan

Il “qui e ora” rappresentato sul palco racconta la fragilità della condizione umana. È una fragilità che fa ridere? Sì, è evidente, a giudicare dal volume delle risate udite in sala.
Valerio Mastandrea, con Valerio Aprea, ha portato in scena ieri e lunedì al Teatro Remondini il nuovo testo di Mattia Torre che porta questo titolo. Torre è autore fra l’altro del precedente spettacolo interpretato dall’attore romano ed è noto a giovani e meno giovani per aver firmato assieme a Vendruscolo e Ciarrapico la fortunata serie televisiva Boris.
Assistendo a Qui e Ora si sorride e si ride di gusto, si ride di noi e del nostro mondo finito a ruote all’aria, come quelle dei due scooter aggrovigliati che troneggiano sul palco, ma a tratti sale in bocca uno gusto strano, salino e amaro, che forse somiglia un po’ al segnale d’inizio di un’emorragia interna tanto temuto dai due feriti sopravissuti all’incidente che dà il via al racconto.

Mastandrea-Aurelio è uno chef quarantenne, prima dello scontro stava correndo a un appuntamento di lavoro, era atteso a una trasmissione di quelle che dilagano ovunque dedicate al culto nascente dell’impiattamento. L’altro protagonista è un suo coetaneo madre-dipendente, un uomo qualunque in difficoltà con il lavoro, con la moglie e il figlio, che ha dei problemi di espressione e di connessione, per lo shock o connaturati. I due si ritrovano feriti e storditi sull’asfalto di una strada della periferia romana, vicino al raccordo anulare, in un posto che è un non-luogo: non passa nessuno, non ci sono case intorno e loro non riescono a dare ai volontari del 118 le coordinate giuste per raggiungerli (al Pronto Soccorso rispondono al telefono dei vecchi a cui bisogna ripetere nel cornetto le cose più volte, gente “volontariamente” priva di interessamento e di memoria a breve termine).
Sulla scena incombe l’Italia: è il 2 giugno, la Festa della Repubblica, e in cielo imperano, attentando al muro del suono, le Frecce Tricolori.
Il fitto dialogo che si svolge tra i due, assieme alle chiamate fatte e ricevute dai cellulari – lo spettacolo è tutto giocato sulla parola e sulla qualità della recitazione –, denuncia un’incapacità di comunicare portata all’estremo. Aurelio e il suo compagno "sulla" strada si sfidano e palleggiano come due atleti in una partita da tennis, e sul palco tra scambi di battute e sketch divertenti salgono anche i vizi e le contraddizioni di una generazione che fa i conti con la crisi sociale e falsi miti, che abita un Paese in attesa di un Master Chef da mettere ai fornelli, che è cinicamente “qui e ora”, ma che pare condannata a non esistere se non come maschera di se stessa.
Aurelio e l'altro sono due qualunque che in realtà, al di là delle circostanze, non si incontrano né si scontrano: si riflettono come in uno specchio – e il dramma vero forse è che sembra che qui e ora nessuno possa essere per l’altro un vero sconosciuto. Tra i due ex conducenti c’è un gioco di forza tutto dialettico, spesso esilarante, a tratti malinconico – e che presto rivela tutta la sua fragilità terrena – in cui le gerarchie spesso vengono sovvertite e infine si ribaltano, nell’epilogo terminano a ruote all’aria (è d’obbligo omettere la descrizione del finale di partita in un testo come questo).
Uno spettacolo pieno di sottotracce, interpretato con maestria e molto applaudito.

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