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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

G8

God Save the Vaca

Da Ezzelino alle leggende del territorio e dalla civiltà contadina al Grappa. Intervista in enoteca con Roberto Popi Frison: narratore della favolistica popolare veneta. “Senza alpeggi perderemo i prati sul Grappa, il MaB Unesco si è spento”

Pubblicato il 12-09-2023
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Odontotecnico per professione, narratore di storie per passione.
Impianti dentali e viaggi mentali sono le due facce della sua composita medaglia.
Mi riferisco al multiforme Roberto Frison, detto Popi, di Romano d’Ezzelino.

Roberto Popi Frison (foto Alessandro Tich)

Scrittore di leggende e di storia locale, favolista, autore di libri, attore e creatore di spettacoli, guida ambientale escursionistica, già presidente della Pro Loco di Romano per vari anni a partire dal 1996.
È lui il nuovo intervistato della rubrica di Bassanonet.it sui personaggi del nostro territorio “Interviste in enoteca”, ospitata all’enoteca Sant’Eusebio presso l’Hotel Alla Corte a Sant’Eusebio di Bassano del Grappa.
Popi, il soprannome con il quale è conosciuto urbi et orbi, deriva da quando aveva 16 anni.
“Assomigliavo moltissimo a un amico, Massimo Pupi, un bravo calciatore e un bel ragazzo - rivela -. Ci confondevano, avevamo lo stesso taglio di capelli. E allora gli altri: “Pupi, Popi...ti te ciamemo Popi”. E va ben. Roberto, Popi per gli amici.”
Conversare con lui è un piacere perché in quanto all’arte dell’affabulazione ci sa veramente fare. Un narratore brillante e coinvolgente, al punto che lo qualcuno lo ha persino definito “il prestigiatore delle emozioni”.
Vediamo dunque che cosa Roberto Popi Frison ci tira fuori dal suo cappello a cilindro.

Allora Popi, tutto questo interesse per il territorio nasce negli anni ‘90. Vero?
Sì. Negli anni ‘90, quando sono entrato nel Palio di Romano, che tratta la civiltà contadina.
Lì ho capito, essendo figlio di contadini, che i movimenti e le ritualità di mio papà e della mia famiglia potevano essere declinate dal punto di vista didattico. Ecco che allora ho messo in piedi la manifestazione degli Angoli Rustici del Palio di Romano e mi sono avvicinato sempre più a quel concetto di scrittura di quello che vedo e che ho provato sulla mia pelle. Essendo io stato comunque un contadino fino a 20 anni, vedevo vache, cunici, gaìne. Ecco che allora lì diventava facile lavorare sulla civiltà contadina perché la conosco in tutte le sue sfumature.
E poi ho fatto il salto della Pro Loco dove ho dovuto approfondire quello che un tempo mi sembrava remoto, cioè il medioevo ezzelino.

Come è successo questo approfondimento con la Pro Loco?
Intanto sono diventato presidente della Pro Loco perché avevo una certa propensione a correre veloce e ti fai notare in paese. E allora: “dai, Frison, va bene, fai il presidente della Pro Loco”. Avevo dei presidenti prima di me che erano ferrati in materia di Ezzelino. E allora non potevo fare brutta figura, dovevo essere al loro pari. E col tempo ho però capito che su Ezzelino, per quanto tu ne sappia, devi adottare un linguaggio alla portata di tutti.
Ecco che così mi sono avventurato sul meccanismo anche teatrale. Ho messo in piedi diversi spettacoli teatrali incentrati su Ezzelino, ma non solo.

“Non solo”...cioè?
Perché ho scoperto, nel raccontare le suggestioni e le leggende di Ezzelino, che c’era una prateria inesplorata che erano le leggende e la favolistica popolare coi suoi magici personaggi. Sanguanèi, orchi, serpenti gaeti, anguane, fade. Sono andato alla ricerca, ho trovato della buona letteratura ma soprattutto ne ho trovata parecchia del 1800. E là mi si è aperto un mondo. Ho ritrovato tutto quello che apparteneva ai racconti dei vecchi. Me li sono ritrovati catalogati, messi in ordine e ho potuto recuperare tanti piccoli dettagli. E poi, iniziando dalla mia terra, mi sono incuriosito a tutto il territorio veneto ed oggi sono uno dei due-tre referenti a livello regionale in tema di Veneto Spettacoli di Mistero, cioè il festival di tutte le leggende venete. Quando non c’è Alberto Toso Fei, direttore artistico del festival, i me domanda a mi.

Qual è la leggenda veneta più affascinante per lei?
Ne abbiamo due. Quella del lago di Lispida…

Lago di…?
Lispida, tra Battaglia Terme e Monselice. È la storia di Manfredino di Monticelli che si innamora della sirena del lago di Lispida e lei viene condannata ad esser donna, ma ha un problema. Le figure dell’altro regno non hanno l’anima. Allora lei peregrina a destra e a manca e dentro alla chiesa del Santo una voce le dice: “Vai dal tuo amato e bacialo. Se è vero amore, metà della sua anima confluirà in te”. E così avvenne. E l’altra leggenda che mi piace è quella dei 4444 gradini alla Calà del Sasso che è una bella storia d’amore. Insieme anche a quella del Giacominerloch.

Mi scusi Popi, Giacomi…che?
Giacominerloch. Lo può scrivere col “ch” finale. È un orrido, una cavità. Lì gli elfi rapiscono la figlia di un boscaiolo avido che ha tagliato troppe piante del bosco vecchio. E allora per punizione i ghe prende a fioea e i ghe a trasforma in anguana, ninfa d’acqua.
Questo per far capire anche la sostenibilità del territorio attraverso il timore che gli elfi i vegna a portarte via a tosa. È una leggenda fantastica.

Senta un po’. Adesso, in questo mondo digitale in cui siamo tutti risucchiati dallo smartphone, tutte queste storie che presa hanno?
Nel web hanno una buona presa, devo dirle. Perché la gente comunque ha bisogno di sognare. Ha bisogno della fantasia. Se sei dipendente dallo smartphone, vai di corsa però appena trovi qualcosa che ti fa viaggiare e ti rapisce, è più forte di te, è come un racconto. E il web tutto sommato è utile in tal senso. A parte le volte che go el teefonin in scarsèa e fasso i numeri, ma no ze sta colpa del teefonin, ze sta el sanguanèo che gaveo in scarsea

Occhio al sanguanèo, dunque…
Sì, proprio. Nel web, comunque, la favolistica popolare funziona, prende. È un bel segnale perché, tutto sommato, se è il web è usato in modo intelligente è un ottimo strumento per veicolare questi racconti e farli comunque uscire dalle case. Perché quando uno ascolta una storia, poi va anche a vedersi il posto. Ha una funzione di “incoming”, per far muovere alle persone il Cavallo di San Francesco, che è l’altro nome delle gambe.

Ultimamente questa sua passione per le storie si è elevata di quota, guardando anche verso il Grappa…
Sì. Sono cose che davo per scontate perché io ho fatto molte mie estati in alpeggio nella casara di mia nonna. La casara, per noi, è la casa di secondo ordine che uno ha in montagna. Anche se hai stalle e tutto quanto, ci trasciniamo questo termine che oggi molti chiamano “malga”. Ma la malga è quella in cui tu sei organizzato, hai una partita Iva, te vendi formajo eccetera. La casara è dove vai a starci e basta. Pertanto avevo già un’affinità col Grappa.
I miei nonni avevano dei terreni sulla montagna e il cavallo, su cui ho scritto anche un libro.
E dopo un’altra cosa: quand’ero presidente del Palio di Romano ho messo in piedi il reparto Grande Guerra del Grappa. Un gruppo di rievocatori, con le loro uniformi, dove ogni personaggio poteva essere rappresentativo di un periodo di un certo anno di Grande Guerra e in più zone. Ecco che il Grappa, giocoforza, diventa un ulteriore elemento di interesse.
E avendo dimestichezza con la montagna e con la Grande Guerra, avendo approfondito la Resistenza, mi mancava solo di fare un esame per essere guida ambientale escursionistica e l’ho fatto, concludendo il percorso. Tenga conto che quando ero presidente della Pro Loco abbiamo fatto un progetto europeo col Gal, assieme alla parte trevigiana del Cansiglio, e la Pro Romano faceva riferimento per tutto il Massiccio del Grappa nel web.

Secondo lei, oggi il Massiccio del Grappa come sta?
Male. Fra vent’anni, se non tuteliamo l’alpeggio, saremo sensa vache in Grappa.
Se tu togli il bestiame, togli i contadini, l'agricoltura. E i manutentori di quel giardino importante che è il Massiccio del Grappa sono i contadini, coi loro alpeggi.
Il Monte Oro ha già perso più di metà prato che è andato via in favore del bosco e soprattutto delle piante infestanti. E una volta il Monte Oro sul Grappa era tanto prato. Dove c’è prato, crescono determinate piante, come i narcisi. È inutile: fra vent’anni no femo più i fighi coi narcisi perché non ci saranno più. Se perdiamo le vacche lassù, perdiamo pertanto un paesaggio che è stato tramandato per generazioni. Si è arrivati in progressione fino al secolo scorso con 400 anni di lavoro e lo perdiamo tutto d'un tratto in pochissimo tempo.
God Save the Vaca.

E della Riserva della Biosfera MaB Unesco del Monte Grappa cosa pensa?
L’arrivo del MaB Unesco io l’ho salutato con gioia. Le racconto un aneddoto.
Accompagnavo sul Grappa due consoli americani per conto del Museo Hemingway.
Loro erano qui per gli arditi e la Grande Guerra. Arrivati a Malga Val dee Foje, dove le consiglio di andare a mangiare perché sono bravissimi, ho preso un po’ di confidenza e sono andato sui miei temi, oltre a quelli della guerra che volevano loro. E gli ho detto: “Il Monte Grappa è anche MaB Unesco”. E loro: “MeB Iunesco?”. È cambiato completamente il registro. Go dovuo racontarghe per fio e per segno le peculiarità del Grappa MaB Unesco. Non gli interessava più sapere della Grande Guerra, volevano sapere perché il Grappa è MaB Unesco. C’è stata una forza di attrazione verso il termine Unesco che è stata potente. Poi quando gli ho detto: “Ma lo sapete che abbiamo 5600 tipi di piante che crescono in Italia e che qui ne crescono un quarto, 1400?”, sono rimasti di stucco. E allora gli ho spiegato anche le peculiarità del formajo burlacco, o morlacco, che a Romano chiamiamo burlacco perché lo decliniamo nella vacca burlina. Dimmi che erba che te magni e ti dirò che latte che te fe. Il latte della fienagione del Grappa è uno tra i migliori. Perché abbiamo piante officinali che non troviamo dappertutto.

E allora, questo MaB Unesco?
Quando ho raccontato tutto questo ho capito che il MaB Unesco porta una bella filosofia e una grande attrattiva dal punto di vista turistico. È una stella polare, un riferimento ecosostenibile. È qualcosa di bello e di elevato. Ma bisogna continuare a veicolarlo con forza. Mi sembrava fosse all’inizio. Si è spento. Non lo percepisco più. Alessandro, è così: perché è stando sul pezzo che fai capire alla gente che ci sei. Il MaB Unesco? Non serve fare tanti tavoli. Falli pure, ma devo avere la stella polare che continua a brillare. Non sta brillando.

L’accostamento del vino

Come sempre, al termine dell’intervista il patron dell’enoteca Sant’Eusebio Roberto Astuni associa un particolare vino alla persona intervistata, in base alle sue caratteristiche.
“Popi Frison uguale Monte Grappa - spiega Astuni - È riconosciuto il fatto che lui conosca non solo il Grappa ma tutto il territorio, però è un grande narratore anche di tutto quello che è il Massiccio, dalle leggende fino alle storie vere. Quindi ho scelto un vino che si produce proprio alle pendici del Monte Grappa.”
“Voglio ricordare - prosegue - una celebre frase di Dante Alighieri nella Divina Commedia:
“In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rialto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge molt’alto”. Già questo dà l’idea di dove siamo. Ma soprattutto mi rifaccio a quello che è scritto nell’etichetta di questo vino: “Vino eticamente sovversivo per consumatori dal pensiero libero”. Non voglio dire che il buon Frison sia un sovversivo, però il suo pensiero è stato sempre molto libero.”
“Il vino scelto si chiama “Ad occhi chiusi”, prodotto da Terraprava di Romano d’Ezzelino - conclude Roberto Astuni -. È un Souvignier Gris ed è un vino Piwi, presente quindi nella nostra Piwiteca. Si chiama così perché va bevuto veramente ad occhi chiusi. E qui mi riferisco nuovamente a Popi, perché quando lui racconta, io lo ascolto e chiudo gli occhi. Perché quando narra queste storie e queste favole, ti fa veramente viaggiare con la mente.”
Segue il brindisi di rito con il vino prescelto.
E arrivederci al prossimo G8 che, come ricordo sempre, si legge “Gotto”.

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