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Direttore Responsabile
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Il "Tich" nervoso

Italia, madre adorata e matrigna ingrata

Il 10 febbraio si è celebrato il “Giorno del Ricordo” in memoria dell'Esodo degli istriani, fiumani e dalmati. Ma l'Italia ha sempre guardato con sospetto questo “popolo nascosto”, doppiamente italiano e dai cognomi così strani

Pubblicato il 09-02-2011
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Elena Pavan

Sono tra noi, e sono ancora in tanti. Anzi: siamo in tanti. Perché, con le mie radici fiumane, sono uno di loro. Chiedo scusa per il riferimento personale: ma quando una cosa è vissuta da dentro, è più diretta e credibile.
Parlo degli esuli istriani, fiumani e dalmati: il “popolo nascosto” per tanti decenni che la tragedia della guerra ha strappato alle loro terre e alle loro case, espropriate dai “vincitori” della Jugoslavia di Tito per la loro colpa di essere italiani.
Ne parlo perché in questi giorni ne parlano - e non sempre a proposito - in tanti, forse in troppi. Dopo che per quasi cinquant'anni, riguardo all'Esodo degli italiani di oltre Adriatico, non aveva parlato quasi nessuno.

Esuli istriani da Pola nel 1947

Il perché di tanto interesse è presto detto. Lo scorso 10 febbraio si è celebrato il “Giorno del Ricordo”: la ricorrenza istituita di recente dal governo italiano in memoria dell'Esodo e delle vittime delle foibe e degli eccidi compiuti per motivi etnici o politici ai danni della popolazione italiana di Istria, Fiume e Dalmazia.
E che ancora una volta, sulla pelle delle persone, presenta e interpreta la tragedia dell'Esodo a seconda dello schieramento e dell'opinione politica. Contribuendo a fornire un'immagine parziale o distorta del passato e del presente di queste persone private delle radici che continuano ad essere, per gran parte dei loro connazionali, degli oggetti misteriosi.
Gli esuli che si sono ricostruiti una vita in Italia sono italiani due volte: prima per origine e madrelingua, e poi per scelta. Ma l'Italia li ha sempre guardati con sospetto, con quei cognomi - se non italianizzati durante il Fascismo - così strani e “bastardi”, con la “ich” o con la “k” finale, mezzi italiani e mezzi slavi, mezzi tedeschi, mezzi boemi, mezzi ungheresi.
Che altro non sono che l'espressione onomastica di quell'incrocio di matrimoni e di lingue che aveva sempre costituito la linfa vitale dell'impero asburgico a cui quelle terre, prima ancora che all'Italia, erano appartenute.
Ma quegli strani italiani di lingua italiana e dal cognome straniero sono sempre stati, nel nostro Paese, una presenza ingombrante.
Per il sistema politico, che in nome dei nuovi equilibri europei - sin dal primo Dopoguerra - ha sempre rimosso il loro dramma per prevenire imbarazzi diplomatici.
Per le barriere ideologiche, che per anni hanno confinato gli esuli, scampati alle persecuzioni del nuovo regime comunista jugoslavo, sotto l'etichetta di “fascisti”.
Per la burocrazia, che negli atti d'ufficio e documenti di identità ha sempre fatto in modo di mettere in dubbio la loro italianità, con quella frase - “nato in Jugoslavia” - che è un palese e voluto falso storico.
Per carità: irredentisti ed ex fascisti - tra gli oltre 350mila italiani esiliati dalle terre adriatiche - ce ne sono stati. Ma la stragrande maggioranza degli esuli era composta da persone e da famiglie normali, a cui la Storia ha strappato in un sol colpo gli affetti e le proprietà. Non avendo più altra scelta, per salvare la pelle, se non quella di spargersi per il mondo.
I più, tra di loro, hanno optato per l'esodo in Italia, la “madrepatria adorata”.
Relegati all'inizio nei campi profughi, i ghetti a loro riservati dallo Stato italiano. Per poi trovare una nuova casa, un nuovo lavoro e costruire da zero un nuovo futuro.
Inserendosi e integrandosi nei loro nuovi contesti di vita, e mantenendosi in rete in Italia e nel mondo - molto prima dell'avvento di internet - con i loro giornali, i loro raduni e le loro associazioni.
Una “seconda vita” ricostruita in dignitoso silenzio, ma senza mai rinunciare all'identità delle proprie origini. E' stato forse questo il sentimento che ha dato loro la forza di andare avanti in un Paese che li ha sempre esclusi dai libri di Storia e che non li mai completamente compresi e assimilati.
Con una crosta di sopportazione costruita - come le gocce delle stalattiti - dalle piccole diffidenze ed ignoranze della vita di tutti i giorni.
Qualche mese prima di morire, mio padre, fiumano - visitato al Pronto Soccorso e poi in Geriatria all'Ospedale di Bassano - è stato trattato come un extracomunitario dai due medici di turno. Non aveva documenti in tasca, ma aveva fornito le sue generalità, con il suo nome e cognome con la “ich” finale. Un'infermiera mi ha chiesto “se aveva per caso il permesso di soggiorno”.
Mia zia - che a Fiume fu picchiata dai titini, e il cui datore di lavoro venne infoibato - ha sempre vissuto il distacco dalla sua terra soffrendo in silenzio. Esule a Roma, non ha mai più voluto tornare nei bellissimi posti della sua gioventù, affacciati sul Golfo del Quarnaro, diventati nel frattempo frequentata meta delle vacanze degli italiani.
E' morta con i documenti italiani che indicavano “nata in Serbia-Montenegro”, nuova denominazione della Jugoslavia dopo la guerra nei Balcani e dove lei non aveva mai messo piede.
Due piccoli esempi di cosa ancora significa, dopo tanto tempo, essere esule nell'Italia di oggi.
Nonostante tutto, io ho voltato pagina. Diversamente da altri miei coetanei, esuli di seconda generazione, che non sanno rimarginare, nei confronti della Storia, una ferita ancora aperta e sanguinosa. Ringrazio per questo mio padre e mia madre, esuli da Fiume, che mi hanno cresciuto - malgrado la loro gioventù strappata - senza mai instillarmi il sentimento dell'odio nei confronti degli slavi.
Lì, nella ex Jugoslavia, ho trovato perfino l'amore: mia moglie è croata. I miei genitori sono nati a Fiume, uno dei miei figli è nato a Rijeka. Ma è la stessa città.
In un certo senso ho chiuso il cerchio. Ma la questione degli esuli, in realtà, è una figura geometrica molto più complessa da capire e da studiare.
E non basta la formalità di un “Giorno del Ricordo” per far espiare all'Italia le sue mancanze, che per molti esuli l'hanno trasformata da una madre adorata a una matrigna ingrata.

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