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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

Attualità

C’era una volta in Cina

Il prossimo 29 luglio sarà il ventennale dell’arrivo in piazza Tienanmen della spedizione ciclistica bassanese “Marco Polo 2001” da Venezia a Pechino. I ricordi cinesi del vostro umile cronista, testimone diretto di quel fatidico momento

Pubblicato il 24-07-2021
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Rinascimento in bianco e nero

Il tempo non monta in bicicletta, ma corre tantissimo lo stesso. E giovedì prossimo 29 luglio saranno trascorsi esattamente vent’anni da un evento davvero speciale: l’arrivo in piazza Tienanmen della spedizione ciclistica “Marco Polo 2001” da Venezia a Pechino.
Un’impresa incredibile nata a Bassano del Grappa, grazie alla Fondazione Etica ed Economia, partita da Venezia il 25 aprile 2001 e compiuta da otto temerari del pedale. Cinque dei quali provenienti dal nostro territorio: il capospedizione Aldo Maroso, oggi sindaco di Cassola, e poi ancora Antonio Gonzo, Gian Maria Ferraro, Giovanni Vidale e il “bocia” del gruppo Antonio Toniolo. Per loro il non facile impegno di attraversare in tre mesi su due ruote dodici Stati lungo la Via della Seta tra l’Europa e l’Asia assieme agli altri tre compagni di avventura: il veneziano Alberto La Greca e i padovani Nilo Simioni e Genesio Ballan. Al loro seguito anche il grande e compianto fotografo bassanese Enzo Dalla Pellegrina. Del gruppo dei ciclisti faceva parte anche il veneziano Alberto Fiorin, caduto e costretto a ritirarsi proprio nella prima tappa. Avrebbe continuato a partecipare all’impresa da casa, aggiornandone quotidianamente l’andamento sul sito internet della spedizione.
A quel tempo io ero il direttore di Bassano TV, emittente legata alla Fondazione Etica ed Economia e quindi “media partner”, come si direbbe oggi, dell’impresa ciclistica.

L'ingresso dei ciclisti in piazza Tienanmen. Fermo-immagine dal video 'Marco Polo 2001 - La giornata del ciclista'

Per questo, a fine luglio 2001, ho preso un aereo per andare a Pechino allo scopo di immortalare e raccontare l’epica conclusione di quella spedizione. Ci sono andato con la mia famiglia e con altre tre persone: Tullio Chiminazzo, direttore della Fondazione; Andrea Pizzato, dirigente del Gruppo Nico che era l’editore di Bassano TV e l’operatore televisivo Fabio Verin. I compagni di viaggio di una delle mie più grandi esperienze umane e professionali.

Telecamera sequestrata

La prima impressione di Pechino, appena fuori dall’aeroporto, è scioccante.
Fa caldissimo e l’aria è pesante e quasi irrespirabile per lo smog che offusca il sole e ingrigisce il cielo. Ci abitueremo. La mastodontica città, che i cinesi chiamano Beijing, è in espansione: gru e cantieri dappertutto, pochi giorni dopo la nomina di Pechino a sede delle Olimpiadi estive del 2008. Impressionano le migliaia e migliaia di condizionatori d’aria, tutti uguali, che sporgono da tutte le finestre degli enormi caseggiati lungo la strada.
Anche nei taxi c’è l’aria condizionata, a livello frigorifero. La città è talmente grande che devi dire al tassista dove devi andare prima di salire a bordo: ti fa entrare solo se conosce la destinazione.
Il primo impatto negativo sarà poi ampiamente compensato dalle meraviglie che Pechino ci regalerà nei momenti di pausa turistica: la Città Proibita dove rivivo le scene dell’Ultimo Imperatore di Bertolucci, piazza Tienanmen con tutto il suo carico di simbologia, l'elegante e imponente Tempio del Cielo, il Palazzo d’Estate con il suo fantastico giardino imperiale, le monumentali Tombe Ming. Ma tutto questo rischiava di essere vanificato dall’impossibilità di fare la cosa per cui siano giunti sino a qui.
Al nostro arrivo in aeroporto, all’ultimo posto di controllo ci viene infatti sequestrata la telecamera per realizzare i servizi per Bassano TV. Abbiamo un visto turistico e non un visto per lavoro: niente da fare. L’inflessibile Polizia di frontiera cinese ce l’avrebbe restituita al nostro imbarco per il volo di ritorno: ma senza riprese, il nostro viaggio intercontinentale era inutile. Immaginatevi il mio sconforto. Ma, vivaddio, siamo italiani.
E qualche ora dopo un’addetta dell’ambasciata d’Italia ci dice sottovoce: “C’è un italiano, ex operatore Tv, che vive qui a Pechino. Potete noleggiare una telecamera da lui”.
Detto, fatto. Andiamo dal nostro connazionale e per 200 dollari noleggiamo per una settimana una telecamera professionale compatta, che non dà nell’occhio, con la quale riusciamo a fare di tutto e di più, anche le interviste a pochi passi dal picchetto di guardia della Polizia militare in piazza Tienanmen. Insomma: applicando in modo speculare la situazione di molti cinesi in Italia, io e il mio cameraman siamo stati i primi due lavoratori italiani abusivi in Cina.

My name is Topo Gigio

Il personaggio che rimarrà indelebile nella memoria del viaggio cinese è l’autista che porta in giro il nostro gruppo dei “non ciclisti”, col suo pulmino a 9 posti, agli incontri istituzionali e alle escursioni turistiche a Pechino e dintorni. Si chiama Li Ming. È bello avere un autista della dinastia Ming. Paffutello, ironico, amichevole: andare via con lui è uno spasso.
Tra le altre cose, ci accompagna a visitare la meravigliosa Grande Muraglia Cinese, a Badaling. Non ci porta però nel punto dove vanno in massa tutti i turisti, ma a un altro ingresso conosciuto solamente dai “locali”. E grazie a lui su quel tratto di Grande Muraglia ci siamo solo noi, unici esseri umani sopra un infinito e gigantesco serpente di mattoni che segue il saliscendi delle alture circostanti fino all’ultimo punto di orizzonte, a perdita d’occhio. Una visione talmente grandiosa e impressionante che è impossibile da esprimere a parole. Incommensurabile.
Durante gli spostamenti in pulmino io siedo davanti, vicino a lui. Li Ming parla infatti un po’ di inglese e quindi io fungo da interprete per le comunicazioni con il resto del gruppo.
Una volta, mentre è al volante, mi chiede che lavoro faccio. Gli rispondo: “I am a journalist.” E aggiungo: “Gìgioa.” Avevo sempre con me un piccolo e utilissimo dizionario Italiano-Cinese e Cinese-Italiano della Vallardi Editore, con ogni parola cinese indicata con la sua pronuncia. Mi ero già preparato in Italia a dire la parola “giornalista” in cinese: traslitterata nel nostro alfabeto si scrive Jìzhě, ma si pronuncia Gìgioa, con l'accento sulla prima “i”. Neanche fatto in tempo a rispondere, che qualcuno dai sedili posteriori dice agli altri: “I ze drìo parlar de Topo Gigio.” Al che Li Ming mi chiede: “What’s Topo Gigio?”. E io glielo spiego. Morale della favola: quello sarebbe stato il mio nuovo nome fino al termine della trasferta a Pechino. La mattina chiamavo l’autista per prendere l’appuntamento: “Hello Li Ming, I am Topo Gigio.” E lui: “Hello, Topo Gigio!”. Questione di Toponomastica.

Incontro ravvicinato

Domenica 29 luglio 2001: è la giornata clou della nostra trasferta, la data della tappa conclusiva per gli otto ciclisti di “Marco Polo 2001”, la Gaobeidian - Pechino di 100 km, dopo tre mesi di pedalate lungo l’itinerario euro-asiatico. Il nostro compito, come televisione, è quello di immortalare il loro storico arrivo in piazza Tienanmen, per realizzare una serie di servizi speciali irripetibili.
Ma comunicare con loro non è possibile. Cellulari bloccati per le chiamate internazionali. L’unico modo per “intercettarli” prima del loro arrivo a Pechino è quello di fare a ritroso in pulmino il percorso della loro tappa, nella speranza - prima o poi - di incrociarli per strada.
E a una trentina di chilometri fuori Pechino, su un rettilineo, io che siedo davanti vedo sbucare all’improvviso, in lontananza, un gruppetto di maglie gialle e rosse sopra a delle biciclette in direzione opposta alla nostra. “Eccoli! Eccoli!”, mi metto a gridare.
Quando i pronipoti di Marco Polo sono ormai a pochi metri da noi, faccio suonare il clacson. Ma i ciclisti non ci filano minimamente e vanno avanti per la loro strada. Ferma el furgon, torna indrìo e finalmente, dopo qualche minuto, avviene il fatidico incontro on the road con i protagonisti della spedizione. Saluti e abbracci.
Ci spiegano di non essersi accorti del nostro clacson perché in Cina il clacson lo suonano tutti, dalla mattina alla sera, e non ci facevano più caso. Per la serie: ma va' in Cina…
Prima di entrare a Pechino, c’è però un’ultima formalità da risolvere. C’è un minibus al seguito di “Marco Polo 2001”, col fotografo Dalla Pellegrina, coi bagagli del gruppo e con un altro autista di nome Lee, partito con la spedizione dalla lontanissima città di Urumqi nello Xinjiang, al confine nord-occidentale dello sterminato Paese. Ma non può raggiungere il centro di Pechino perché zona vietata alle auto con targhe diverse da quella della capitale. Sosta obbligata, quindi, in una grande stazione delle corriere alle porte della metropoli dove i ciclisti salutano il loro autista e trasbordano bagagli e attrezzature in un altro minibus noleggiato in loco. Arriva poi finalmente il decisivo momento della ripartenza per piazza Tienanmen. Ma nell’autostazione ci sono dei lavori in corso e per evitare un giro più lungo i componenti della spedizione imboccano sui pedali una stretta scorciatoia in sterrato che conduce verso la strada principale. E mentre i ciclisti, in fila indiana, partono per la loro straordinaria meta finale attraversando il viottolo di cantiere, Antonio Gonzo pronuncia ad alta voce la storica frase: “Tuto me spetavo de fare in Cina, ma no de entrare a Pechino par un cavin!”.

Tienanmen, eccoci

L’avvicinamento verso piazza Tienanmen, sulle larghe strade del centro di Pechino, è un misto di tensione, di adrenalina e di eccitazione. Noi precediamo i ciclisti quasi fossimo la loro “ammiraglia”, col cameraman Fabio di Bassano TV che li riprende accovacciato nel vano posteriore, con lo sportello aperto, del pulmino di Li Ming. E il momento più emozionante e indimenticabile non può essere che quello dell’ingresso, di fronte alla Città Proibita, nell’immensa piazza che si apre a dismisura davanti ai nostri occhi e dove è stata scritta, nel bene e nel male, la storia della Cina.
È il momento in cui vediamo i nostri eroi a due ruote, dopo 96 giorni e circa 12.000 chilometri percorsi in bicicletta, staccare le mani dal manubrio e alzare le braccia al cielo.
La grande avventura termina nel cuore di Tienanmen, dove la spedizione viene accolta da un gruppo di giornalisti cinesi dell’agenzia di stampa governativa.
È l’attimo fuggente delle interviste, nel quale ovviamente faccio anch’io la mia parte.
Mi colpisce l’apparente flemma del capospedizione Aldo Maroso, rispetto all’incontenibile entusiasmo e anche alle lacrime di gioia dei suoi compagni di avventura per il traguardo raggiunto. Ma c’è modo e modo di esprimere i sentimenti e l’attuale sindaco di Cassola, evidentemente, è bravo a contenere un’emozione che altrimenti sarebbe difficile da gestire davanti ai microfoni e alle telecamere.
I momenti che seguono fanno parte del ricordo collettivo: i ciclisti scesi dalle loro biciclette che passeggiano davanti alla grande porta che introduce alla Città Proibita, dominata dalla enorme effigie di Mao Tse-Tung, attorniati dalla curiosità di centinaia di cinesi che fanno a gara per scattare una miriade di foto a quei visitatori da un altro pianeta in maglia gialla e rossa, in un’epoca ancora senza smartphone, con le loro macchinette fotografiche.
È la stupenda istantanea conclusiva di questa irripetibile Lunga Marcia su due pedali.
Ciao, Beijing.

Accadeva vent’anni fa. Il mondo è cambiato, la Cina è cambiata, nel frattempo ci si è messo di mezzo anche un virus di presunta origine cinese e siamo cambiati anche noi.
Ma non cambiano il valore, il significato e lo spirito di quella grande impresa.
C’era una volta in Cina. Ma nel cuore di chi ha vissuto quei momenti c’è ancora adesso e ci sarà per sempre.

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