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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

Attualità

Il mio Giorno del Ricordo

Considerazioni a margine della serata sull'esodo degli italiani da Fiume, organizzata dall'associazione culturale Destra Brenta a Bassano, di cui chi vi scrive, figlio di esuli fiumani, è stato il relatore

Pubblicato il 09-02-2019
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Immaginatevi che domani mattina dobbiate lasciare per sempre la vostra casa, che viene occupata da altri. E di ricevere dopo molti anni, se mai ci riusciate, un misero indennizzo per il bene abbandonato. Di chiudere nelle valigie e nelle casse tutte le vostre cose, per andare in un altrove in molti casi ancora ignoto, in Italia o nel resto del mondo. Di perdere di vista tutti i vostri amici e conoscenti, anch'essi costretti a salutare la loro terra.
E soprattutto di trasformarvi improvvisamente in profughi e di dovervi ricostruire una nuova vita completamente da zero. Ecco: questo è stato il destino riservato agli oltre 330.000 esuli italiani dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, di cui oltre 38.000 dalla sola città di Fiume e circondario.
Ieri sera ho iniziato così il mio racconto sull'esodo fiumano all'incontro intitolato “Erano Italiani - Esuli e Martiri Dimenticati”, organizzato dall'associazione culturale Destra Brenta di Bassano in occasione del Giorno del Ricordo, che ricorre domani.

Una famiglia giuliano-dalmata in partenza per l'esilio (fonte immagine: ilfriuli.it)

Io non sono uno studioso di fatti storici e non posso parlare con competenza scientifica di date, di guerre e di trattati. Ma sono figlio e nipote di esuli fiumani e posso affrontare la questione con cognizione di causa dal punto di vista, privilegiato e quotidianamente vissuto, del testimone. E ho accettato con piacere l'invito del presidente dell'associazione Gianluca Pietrosante, che ha preceduto il mio intervento con un'introduzione storica sull'argomento. Lo avevo fatto, con altrettanto piacere, anche qualche anno fa come relatore ad un incontro del ciclo “Venerdì Storia” alla Biblioteca Civica, dedicato allo stesso tema, su invito del professor Francesco Tessarolo. E lo farò sempre e volentieri con chiunque mi inviti a parlare di questa pagina di storia che scorre nel mio sangue.
Perché bisogna parlarne.

Ancora oggi gli equivoci e la scarsa conoscenza generale sull'esodo in massa degli italiani giuliano-dalmati dalle terre adriatiche nel secondo dopoguerra cedute alla Jugoslavia di Tito, cancellato per decenni dai libri di scuola, offuscano la reale comprensione di quello che è accaduto. Perché per tutta la seconda metà del '900 il dramma della mia gente è stato travisato dall'interpretazione deviante delle ideologie, sia di sinistra che di destra, che ancora oggi fanno fatica a dissolversi. E che sempre e ancora oggi, prevalentemente da sinistra, tendono a inquadrare tutti noi, italiani dai cognomi strani o dai cognomi italianizzati sotto il Fascismo, come dei soggetti misteriosi: forse slavi, forse migranti, forse rifugiati politici, forse soprattutto irredentisti, comunque stranieri in patria.
Tante etichette per una bottiglia che però all'interno è vuota, mancandovi il confortante liquido della consapevolezza storica e culturale del fenomeno.
È difficile spiegare che una popolazione dai cognomi così bastardi - che finiscono in “ich” come il mio, o che sono di origine austriaca o croata o ungherese o boema, e che sono pieni di acca e di kappa - sia stata per la parte maggioritaria di madrelingua, di nazionalità e di sentimento italiano.
Ma come anche a Trieste, questa era una cosa normale nelle città mitteleuropee dell'Impero Asburgico, dove l'incontro e l'incrocio tra i popoli e la creazione di famiglie miste era un processo naturale. Anche e soprattutto a Fiume, fiorente città portuale affacciata sul meraviglioso Golfo del Carnaro, a cui ancora nell'800 fu riconosciuto lo status di “corpo separato” dell'Austria-Ungheria.
Quindi nel 1920, dopo l'impresa di D'Annunzio, diventò addirittura una Città-Stato autonoma a reggenza italiana, per essere poi annessa nel 1924 al Regno d'Italia.
Fino a che, il 3 maggio 1945, non sono entrate in città le armate conquistatrici jugoslave, dando inizio a un anno di terrore con la scomparsa di oltre 550 fiumani, uccisi sul posto o infoibati, per la sola colpa di essere italiani. Era anche l'inizio di un nuovo regime che nei tre anni successivi avrebbe portato quasi 40.000 italiani di Fiume a “optare” per l'abbandono della città, della propria casa, di tutto.
Italiani due volte, per origine e per scelta, ma visti di cattivo occhio e accolti con sospetto da buona parte della popolazione della stessa madrepatria italiana che era uscita da poco dalle macerie della guerra, che li ha sin dall'inizio bollati come “forestieri” (per usare un termine elegante), perché provenienti da una regione oramai diventata definitivamente slava, e come “fascisti”, perché reduci da quasi vent'anni di Regno d'Italia - come se il resto della penisola fosse immune dal problema - e perché fuggiti dalla Jugoslavia comunista del maresciallo Tito. Come se gli oltre 300.000 esuli dalle terre adriatiche sparsi per il mondo, in grandissima parte persone e famiglie normali come la mia, fossero stati tutti corresponsabili del regime autoritario e conniventi con le degenerazioni belliche del Ventennio mussoliniano. Ignoranza e riluttanza anche politica a comprendere ciò che è stato e perché: sono state le vere lenti deformanti della lettura storica dell'esilio, perpetuatesi per almeno sessant'anni e ancora dure a morire.

Non ripropongo in questo articolo le cose che ho raccontato all'incontro sull'esodo fiumano promosso da Destra Brenta. Ritengo che chi ieri sera ha deciso di uscire da casa per venire ad ascoltarmi abbia il diritto di essere il destinatario esclusivo di una testimonianza che attraverso le vicende storiche della mia famiglia, in rappresentanza di migliaia di altre famiglie di esuli, ho voluto rendere pubblica per offrire un momento di informazione oggettiva, di divulgazione non ideologizzata e anche, lo spero, di arricchimento culturale. Tuttavia questa è anche l'occasione per ribadire quanto questa triste pagina di Novecento necessiti ancora di essere scoperta e possibilmente, una volta per tutte, distaccata dal filtro fuorviante del pregiudizio storico e del giudizio di parte.
Tra i tantissimi documenti e ricordi che ancora conservo a casa, c'è una cartolina che raffigura una striscia coi colori della bandiera fiumana (rosso porpora, giallo e blu) che avvolge idealmente tre monumenti-simbolo della città: la Cripta di Cosala, la Torre Civica e la Chiesa di San Vito. Sul retro c'è una scritta a penna con la calligrafia di mio padre: “Partito da Fiume il 20 VI 1948”. Un biglietto di sola andata che mi fa ritornare, fisicamente appena posso ma anche con la mente e soprattutto con il cuore, sempre là.

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