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Proprio perché il lavoro sta cambiando forma ad una velocità mai vista prima, la Festa dei lavoratori assume un significato ancora più simbolico rispetto al suo recente passato.
Rimane sicuramente anche in questo primo maggio lo spazio per parlare di precarietà, di stipendi troppo bassi, d’inflazione, di sicurezza, ma i mutamenti che si vedono nell’economia italiana richiedono di aggiornare le mappe del lavoro anche in altre dimensioni.
Perché non stanno cambiando solo i luoghi e i tempi in cui si lavora: è in corso una vera e propria metamorfosi soprattutto nell’approccio sociale e individuale al lavoro da parte dei più giovani.

Tiziano Treu, Presidente del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro
Quando il lavoro c’è, e in Veneto l’offerta supera ancora la domanda, le statistiche ci dicono che i giovani lavoratori passano molto velocemente da un’occupazione all'altra, approfittano senza tentennamenti delle migliori opportunità che si appalesano, chiedono flessibilità, forme evolute e personalizzate di welfare.
In molti casi, inoltre, il benessere economico familiare permette ai più giovani di rifiutare un lavoro o di interromperlo quando questo non si conforma perfettamente al proprio piano di vita. In questo turbinio di novità, è evidente che i diritti dei lavoratori non sono nemmeno più facilmente catalogabili per una rappresentanza comune.
Con il giurista vicentino Tiziano Treu, ministro del Lavoro a metà anni Novanta, già commissario straordinario dell’INPS e presidente uscente del CNEL, ragioniamo sul lavoro che verrà e sugli scenari che il progresso tecnologico disegnerà per i lavoratori del prossimo futuro.
Professor Treu, qual è il significato più attuale della Festa dei lavoratori?
«Il lavoro, come ha detto bene il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rimane centrale per organizzare la nostra società e per dare una vita dignitosa a tutti i cittadini».
L’evoluzione del mondo del lavoro ha subito un’incredibile velocizzazione con la pandemia.
«Più che dalla pandemia, la velocizzazione dei cambiamenti è data dalla tecnologia, dalla rivoluzione digitale. Scorgo trasformazioni che non vedevo da almeno 10-15 anni. Il lavoro è diventato molteplice, ha tante sfaccettature, non esiste più Cipputi a rappresentare il lavoro manuale. A Venezia, nelle officine Fincantieri c’erano le tute blu, oggi sono di cinquanta colori diversi. Il lavoro ti cambia da sotto la sedia, i cambiamenti si calcolano in mesi».
Perché?
«Il fatto strutturale è la velocità del progresso tecnologico. Fino a qualche tempo fa, i grandi cicli del progresso tecnologico producevano effetti sul lavoro sostanzialmente ogni vent’anni, oggi siamo nell’ordine appunto dei mesi, il futuro sarà ancora più veloce».
I nuovi lavoratori sono diversissimi non solo dai loro nonni, ma anche dai loro padri. Cosa la sorprende di più?
«C’è una generale riscoperta dell’individuo, della centralità della qualità della vita, anche e soprattutto rispetto al tempo che il lavoro occupa nella giornata. Per un secolo abbiamo fatto le stesse cose, le stesse azioni, con gli stessi orari, con le stesse ricompense, il lavoro era omogeneo. Mi sorprende la grande varietà di organizzazioni del lavoro che si stanno prefigurando, soprattutto nelle realtà più evolute».
Il benessere diffuso può permettere ai giovani di affrancarsi notevolmente dalla rigidità novecentesca del lavoro. Ci sono mille definizioni, sono interessanti per esempio gli studi sul concetto di Yolo economy (che tradotto dall'inglese significa: si vive una volta sola).
«Sì, ma la questione principale è l’approccio al lavoro, soprattutto per i profili più qualificati. Sono disposti anche a lavorare di più ma alle loro condizioni, almeno per quello che ho potuto osservare in questi anni al CNEL. Lavoro e produco di più, ma alle mie regole. Lavoro quando voglio e soprattutto dove voglio. Esiste poi una larga fascia di cosiddetto lavoro povero, dove i rapporti di forza tra le parti sono diversi. Ma anche i lavoratori meno qualificati sono sicuramente più selettivi, si nota chiaramente una propensione diffusa al cambiamento, per ottenere mansioni più soddisfacenti o semplicemente più aderenti alle proprie aspettative di qualità della vita».
È sempre più difficile rappresentare questa moltitudine indistinta.
«Infatti i sindacati sono in grande difficoltà. A Mirafiori con un’unica assemblea facevano un’infornata di 2 mila nuovi iscritti. Adesso dove li incontrano i lavoratori? Una parte in fabbrica, una da remoto, c’è chi lavora da casa, chi collegato da un altro Paese. Non valgono più i messaggi di classe standardizzati. È finito il tempo della “One size fits all”, una taglia veste tutti».
Che scenari prevede dunque sulla contrattazione dei salari, dei percorsi di carriera, del welfare?
«L’equilibrio tra vita e lavoro diventerà il punto più importante della contrattazione. Le aziende si contenderanno i lavoratori, di ogni fascia professionale, anche e soprattutto sul campo del welfare. Se gli aumenti salariali sono molto spesso un problema, sui rinnovi ci sarà sempre di più una parte di “moneta” e una parte di welfare aggiuntivo. Molte aziende importanti pagano già adesso i premi anche in maggiore disponibilità di tempo libero».
L’intelligenza artificiale (AI) e la robotica stanno rendendo, non dico già obsoleti, ma quantomeno “a scadenza” tanti lavori e occupazioni intellettuali. Lei sta dalla parte di chi vede solo le opportunità dell’AI?
«Così come avvenuto in passato, le prime vittime saranno i lavori ad alto tasso di ripetitività. Ho letto tante previsioni catastrofiche sulla fine del lavoro, ma non vedo un futuro senza lavoro. Arriverà un nuovo ciclo di professioni “green” e legate ai cosiddetti “lavori bianchi” (cura delle persone)».
In Giappone ci sono già gli umanoidi che si prendono cura degli ultra anziani.
«Quella giapponese è una società addirittura più vecchia della nostra, non hanno giovani e fanno fatica anche a trovare lavoratori stranieri».
L’AI e i robot renderanno però più marginale il lavoro di tanti colletti bianchi, avvocati, impiegati, bancari, cassieri. In passato il progresso creava a catena nuova occupazione, in prima misura perché affrancava l’uomo dal lavoro pesante e seriale.
«Prendiamo gli avvocati: sicuramente ce ne saranno meno, l’Italia tra l’altro è uno dei Paesi con il più alto numero di avvocati al mondo. Detto questo, ci sarà una forte interazione tra uso della tecnologia e professione forense, per lavorare meglio, più velocemente, per dare servizi nuovi. Pari passo all'evoluzione tecnologica, ci sarà una moltiplicazione della formazione, che durerà probabilmente per tutta la vita».
L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, dice la nostra Costituzione. Con il lavoro destinato a rivoluzionarsi, bisognerà aggiornare anche l’introduzione della nostra Carta?
«La Costituzione dà un messaggio: il lavoro è fondamentale per il progresso della nostra democrazia. Bisogna semmai dargli un senso nuovo, aggiornato a tutti i grandi cambiamenti che lo stanno interessando».
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