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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

Intervista a Mariapia Veladiano

La scrittrice vicentina autrice di La vita accanto, libro finalista al premio Strega, ha incontrato i lettori del Piccolo Festival

Pubblicato il 27-06-2011
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Mariapia Veladiano nel quarto incontro in programma al Piccolo Festival della Letteratura ha presentato il suo libro La vita accanto, il romanzo rientra nella cinquina finalista del premio Strega 2011 e sarà soggetto di un film diretto dal regista Marco Bellocchio. Dialogando sul palco con Mattia Pontarollo, la scrittrice vicentina ha raccontato, attraverso la storia di una bambina che cerca il suo posto nel mondo, il difficile cammino della costruzione di un’identità, e poi il ruolo di quel mondo, che è poi quello attuale, nel consentire a tutti non di apparire, ma di esistere.

Prima che della storia, visto che siamo qui e ora, parliamo di Vicenza. La città tratteggiata nel libro è una provincia carica di pregiudizi, piena di belle facciate ma di pietra, un luogo in cui Rebecca non si sente accolta. Tu la popoli di vicentini freddi e giudicanti ma anche di personaggi carichi di una maternità/paternità vera, quelle che i genitori di Rebecca non sono stati capaci di donarle

Mariapia Veladiano e Mattia Pontarollo al Piccolo Festival


Sì, e sono entrambi vicentini, chi respinge e chi accoglie, è un po’ il riflesso dell’anima divisa di Vicenza. Esiste un mare di letteratura sulla Vicenza ipocrita, di facciata, una città piccola, un po’egoista, provinciale, dove sono ovunque forti le presenze del cattolicesimo tradizionale, tanti libri ne mettono in luce la vocazione al bigottismo. Ma la sua è una natura duplice, sono giornalista e collaboro con la rivista Il Regno e so, perché è documentato dai fatti, che esiste in parallelo a questa immagine scura una Vicenza luminosa, accogliente, solidale. In città ad esempio abbiamo una sede Cartitas tra le più attive, e sono tante le persone che si mettono a disposizione degli altri con animo aperto e generosità. Nel libro ho cercato di far emergere entrambi gli aspetti di questa dualità.

La scoperta di un talento offre un riscatto e implica la gratitudine verso chi te lo fa scoprire. Rebecca è una sensoriale, una che sente gli odori, che ha il dono della sintonia tra l’orecchio e il movimento delle mani, è una sfortunata piena di fortune

Rebecca, il nome l’ha scelto sua madre, in ebraico significa “colei che piace”, e il suo nome le è stato attribuito come proiezione sonora di un sogno, in realtà lei tradisce nascendo quel sogno, venendo al mondo con la tara della bruttezza. Via via che si procede con la lettura quasi ci si scorda del suo aspetto quando non lo si legge negli occhi degli altri che la guardano, anche perché non ho indugiato nelle parti descrittive, di lei si sa che ha delle mani belle, e che quelle mani imparano presto a suonare bene. Grazie a zia Erminia Rebecca scopre il suo talento, chi l’aiuterà a coltivarlo e a farlo crescere all’aperto, non nella serra di giardiniere ambigue, saranno il maestro di pianoforte e sua madre, la signora De Lellis. Rebecca non ha potuto conoscere l’odore di sua madre, ha affinato il senso dell’olfatto ed è tanto ricettiva a profumi e odori forse perché lo cerca ancora, ed è costretta a farlo altrove, l’odore dell’affetto. Mi è piaciuto attribuirle questo carattere sensoriale perché appartiene anche a me, non la sua storia, la percezione intensa degli odori.

Rebecca nel finale si è rinchiusa nella sua gabbia d’oro, una voliera nobilitata dall’arte e dal canto della musica, la sua un’accettazione di essere fuori dai giochi della vita, una resa mitigata dalla consapevolezza di essere oggetto d’affetto da parte di qualcuno, non ha la spinta vitale a essere lei ad amare, ama in funzione a chi ama lei, è questa, più che la bruttezza, la parte “brutta” della sua natura?

No, la sua non è un’incapacità ad amare, è solo l’indice di un momento di stasi in cui sta lavorando alla ricostruzione della sua identità, in realtà il finale è un principio. Al termine del libro Rebecca è una ventenne, e sta vivendo una dimensione nuova che accetta volentieri, non è felice, ma quello che ha le basta, si accontenta. Ha attorno alcune persone care che le vogliono bene, si è ricostruita una famiglia nuova che non coincide con quella vera – è un nucleo sui generis formato per la gran parte di donne – ha una passione, un lavoro, il nuovo riflesso nello specchio le restituisce un’immagine di sé in qualche modo anche bella. Il romanzo in realtà parla dell’esclusione, se ad ogni passo si sostituisce la parola “brutta” con “non amata” la trama sta in piedi lo stesso senza fatica. L’altro tema che ci tenevo a far emergere è che il destino si gioca insieme, c’è una parte corale nella vita che non si traduce solo nell’idea di sostegno e aiuto, ma che è un tratto indispensabile dell’esistenza umana.

Qui al festival si parla spesso di letture legate in qualche modo all’attualità, ma che con le riflessioni che propongono tracciano un ponte ideale tra passato e futuro, e ci stanno nel mezzo. In quale direzione ti piacerebbe che il tuo libro facesse muovere i passi del lettore?

Nel mio libro racconto la storia di una bambina e la sua crescita di individuo non è un processo individuale, tra le righe parlo di una coralità delle esistenze che allarga la prospettiva alla comunità e alla società, e racconto la maturazione di una resistenza a un mondo di disvalori che porta alla deriva, alla prevaricazione. Due figure importanti che aiutano questa battaglia appartengono al mondo della scuola, e non a caso: sono la sua maestra e l’amica del cuore, Lucilla. Il ruolo della scuola, della scuola pubblica in particolare, che è un laboratorio di convivenza prezioso per la crescita dei ragazzi, è determinante, gli insegnanti non possono abdicare alla necessità di cura delle persone che la frequentano e che ci vivono gran parte del loro tempo nel momento della formazione e della costruzione dell’identità. C’è attualmente un canone estetico rigido e strettissimo in cui tutti sentono di dover rientrare, tra i precetti collegati all’apparire c’è il possesso di accessori, di oggetti che sembrano irrinunciabili, e quindi la necessità di una disponibilità crescente di denaro, e inevitabilmente si attivano con facilità i meccanismi dell’esclusione e della prevaricazione. Sentirsi a posto è difficile per un ragazzo d’oggi. E’ importante capire il rischio della filosofia del self made man. Non apprezzo la mistica della lotta solitaria contro il mondo, porta all’egoismo, il fallimento è in agguato se non c’è una rete di relazioni che sostiene, mi piace di più pensare a un sentimento corale di appartenenza al mondo. Il ponte è proteso al futuro.

In La vita accanto hai toccato tanti temi “alti”, il riscatto nobile dell’arte sulla bruttezza, la diffidenza verso le famiglie fabbricanti incesti in serie, a vario titolo, la solitudine esistenziale che cerca rifugio nella pazzia, o nel suicidio, una sorta di anticlericalismo, se dovessi preferirne uno da approfondire in un tuo prossimo libro qualche sceglieresti?

Il mio prossimo libro in realtà è già pronto, ho scritto altre cose prima della pubblicazione di La vita accanto, il materiale necessario c’era già. I temi che dici tu possono essere riassunti in una sintesi con il voler parlare di una vita da difendere, di un tema dunque religioso, ben visibile da qualunque ottica si preferisca guardare la religione; anche l’anticlericalismo, inteso come antifariseismo, ha questo obiettivo, la capacità di vedere una vita nuova in ogni angolo. Il prossimo libro in via di pubblicazione parla del grande tema della vita e della morte, ed è più teologico, più dichiaratamente teologico di La vita accanto.

Il Piccolo Festival ha proposto quest’anno un esercizio di memoria storica letteraria, e invitato i lettori a racchiudere in un elenco i libri che ci hanno resi più italiani. Qualche titolo che aiuti a suddividere in capitoli il 150°, un contributo per il 15x10?

Se devo pensare ad autori e testi che ci hanno resi più italiani, a un canone ideale dell’italianità, penso principalmente a due scrittori e ai loro libri: Italo Calvino che con la sua poliedricità ha scritto libri per tutti, e poi un autore sconosciuto ai più, Francesco Biamonti, www.francescobiamonti.it, che nei suoi libri ha sfidato la prosa permeandola di poesia.

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