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Quando un concerto significa molto più di musica e parole. Quando sul palco senti scorrere l'emozione vivida di una vita spesa per la musica. Quando di fronte hai il figlio di una leggenda del cantautorato italiano. Quando, solo chiudendo gli occhi, ti sembra che il tempo si sia fermato.
Mai come in questo caso, la scelta di Cristiano De André di portare in giro per l'Italia le canzoni di suo padre è molto più di una mera operazione commerciale. “Mi era stato chiesto già qualche anno fa”, racconta sul palco, tra un pezzo e l'altro, “ma soltanto ora ce l'ho fatta. Per un periodo non riuscivo nemmeno ad ascoltare la sua musica, figuriamoci a cantarla. Oggi, sento questo tour come un passaggio di testimone e una vera e propria rinascita”.
Venerdì 16 aprile, qualche minuto dopo le 21: il piccolo Palalido di Valdagno è gremito, l'atmosfera è calorosa e a tratti addirittura intima. Cristiano attacca con “Megu Megùn”, in dialetto genovese. La voce è la stessa. La scaletta spazia dagli ultimi dischi del padre (“Creuza de ma”, “Le Nuove”, e “Anime Salve”), nei quali lo stesso Cristiano aveva preso parte agli arrangiamenti, fino ai grandi classici degli anni '60, quelli a cui il figlio ha legato particolari ricordi d'infanzia. Il concerto è godibile, l'audio è ottimo (le persone che lavorano con Cristiano sono le stesse che hanno lavorato vent'anni con Fabrizio De André) e ottima è la band che accompagna l'artista: piccolo orgoglio campanilista sono bassista e batterista del gruppo, Davide “Danzy” De Vito e Davide Pezzin, che qualcuno potrà ricordare come sezione ritmica dei vicentini Mistonocivo. Cristiano De André è ovunque, sul palco: chitarra e sgabello, come il papà, violino distorto in assolo su “Amico Fragile”, bouzouki per i brani dal sapore etnico scritti da Faber con Mauro Pagani, pianoforte per le ballate più lente ed emozionali.

Cristiano De André in uno scatto durante il tour.
Grazie ad una preparazione musicale di qualità dei protagonisti, e ad una sapiente produzione artistica, questo tour mantiene così un altissimo livello di dignità, che fa onore all'arte poetica di Fabrizio De André e dà meritata visibilità alle doti di Cristiano. E anche se alcuni pezzi, grazie alla collaborazione con Luciano Luisi, tastierista della band, hanno subìto un riarrangiamento radicale, il ricordo degli originali non si è macchiato e, anzi, si è riacceso con delicatezza ed eleganza: “ho cercato di dare alle canzoni un vestito nuovo”, ha spiegato ancora Cristiano, “che fosse più vicino al mio sentire musicale e a quello di Luciano, che mi ha aiutato. Il risultato è quello che potete sentire stasera, e che porteremo in giro ancora per un po'”.
Il momento più alto della serata, a detta di chi scrive, si è registrato a metà concerto, quando Cristiano De André si è seduto al piano e ha intonato “Verranno a chiederti del nostro amore”, pezzo di intensità rara, tratto dall'album “Storia di un impiegato”. Il pubblico ha ascoltato estasiato e silente, ed ha poi accompagnato la fine del brano con un lungo applauso. “Lo dedico a mia madre, che ascoltò per prima questa canzone, appena composta da mio padre, all'alba di una mattina di tanti anni fa”. Grande emozione poi anche per l'esecuzione di “Cose che dimentico”, scritto vent'anni orsono a quattro mani da padre e figlio. “Mi telefonò alle cinque del mattino e mi disse: 'Ci, ho scritto il testo per la tua musica, vieni subito!', e quando lo sentii, tutto assonnato, rimasi di pietra. Perché mio padre, quando scriveva, non scherzava”.
Il concerto si conclude con il pubblico in piedi, gremito e danzante sotto il palco ad ascoltare i pezzi più movimentati del repertorio, tra cui “Il pescatore” e “Zirichiltaggia”. Ultime battute concesse poi, in coda, a “La canzone dell'amore perduto”, con la quale Cristiano saluta e scende dal palco per concedersi a foto e autografi di rito.
Piacevole davvero la sensazione del ritorno a casa: il ricordo di Fabrizio De André è vivo, ed è soprattutto nelle mani attente e delicate di un figlio che, prima di qualsiasi altra cosa, è musicista sensibile e preparato. Può accadere così, allora, che per una volta la musica si sleghi finalmente dalle logiche del mercato e racconti ed emozioni più di quanto le venga solitamente concesso.
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