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Rinascimento in bianco e nero

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Rinascimento in bianco e nero

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Interviste

Nella selva dell'Antropocene

A tu per tu con Mattia Pontarollo, a Ground in uno spettacolo teatrale della compagnia Ailuros e protagonista di una flaviada dedicata di Tinariwen

Pubblicato il 29-09-2023
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Rinascimento in bianco e nero

Specie estinte, dalla selva alle stelle, spettacolo itinerante della compagnia teatrale trevigiana Ailuros guidata dalla regista Barbara Riebolge, è andato in scena all’interno del cartellone di Ground nel nuovo bosco urbano di Villa Angaran San Giuseppe, un polmone verde di 269 tra piante e arbusti a cui si è dato vita grazie a un intervento di recupero e riqualificazione del parco a nord della villa realtà vitale che invita all’adozione: urly.it/3xccr.
L’ingresso per gli spettatori, suddivisi in gruppi per tre repliche, è stato collocato in una selva di ulivi ai cui rami erano appese le opere fotografiche realizzate nel corso di una residenza in villa dal collettivo Genet: la mostra “La timidezza delle chiome” è stata frutto di un progetto di ricerca che ha preso spunto dalla “crown shyness”, un particolare fenomeno che modella le chiome di alcuni alberi in modo che non si tocchino tra di loro, protagonista un popolo verde sempre in dialogo nell’ottica di una condivisione naturalmente rispettosa dello spazio.
Nel bosco già un po’ da fiaba si è svolto per i partecipanti-spettatori un breve viaggio che ha ricalcato nella drammaturgia, a cura di Mattia Pontarollo con Nicola Cecconi e Barbara Riebolge, elementi evocativi della Divina Commedia del Sommo Poeta, la scena ambientata però ai giorni nostri, nell’Antropocene. I Dante contemporanei hanno incontrato per primo uno scanzonato Virgilio in marcia, con tanto di bacchette telescopiche, che ha introdotto al cammino tra i gironi, consapevole di rivolgersi a viaggiatori ormai abituati a essere poco attenti, facilmente sfiancabili e inclini a risate vuote, come tanti che frequentano i teatri ai nostri giorni. Gli incontri con mostri infernali, guardiani bestiali, muse divine, presenze celesti (specie estinte) offerti a tappe hanno invitato gli intervenuti a misurarsi di persona con diverse forme di bestialità e umanità radicate in loro, più o meno consapevoli o latenti.

Mattia Pontarollo, in Specie estinte, dalla selva alle stelle, con Ailuros Teatro

Prendendo spunto dallo spettacolo, ma anche della successiva interessante flaviada condotta da Pontarollo giovedì 21 settembre sempre nei locali della villa, che ha avuto come protagonista un disco dalle atmosfere stranianti, “Elwan” dei Tinariwen, parliamo di alcuni temi che hanno attraversato il progetto di Ground e che hanno trovato una rappresentazione efficace in tante iniziative artistiche proposte.

“Specie estinte”: un titolo che guarda a Dante ma anche all’attualità. Qual è stata la luce-guida di questa rilettura della Commedia?
Pur nella consapevole – e necessaria, in un certo senso – infedeltà alla Commedia, “Specie estinte, dalla selva alle stelle” si propone di imparare da Dante una mossa fondamentale: guardare all’attualità non nella sua stretta e soffocante contingenza – la bagarre delle opinioni e dei commenti – quanto piuttosto dal punto di vista di una dimensione radicalmente “altra”: questo ci permette di essere al tempo stesso spietati ed empatici, compassionevoli e caustici.
Lo spettacolo è stato concepito e costruito da Ailuros mentre attraversavamo le fasi più delicate della pandemia, e inevitabilmente si è trovato a confrontarsi con quel periodo – con ciò che siamo stati, come singoli e come comunità, durante quei lunghi mesi. Se le domande principali che ci hanno guidati riguardano soprattutto il rapporto tra umanità e natura, il rifiuto e la perdita della nostra animalità e il conseguente indebolimento della nostra umanità, con il carico di violenza che ne consegue, il modo in cui questa violenza si è incanalata nel linguaggio e nel pensiero durante l’esperienza pandemica ha trovato posto, inevitabilmente, tra le pieghe della drammaturgia.
Finita la fase acuta della pandemia, riaffiora oggi il tema al cuore dello spettacolo: non a caso, tra i tanti personaggi che abitano la Commedia, abbiamo privilegiato figure animali – Cerbero, il Minotauro – o figure ibride, che ci permettessero di riflettere con lo spettatore sulla condizione di rifiuto della complessità della natura umana – che è umana perché animale, e viceversa. Un rifiuto che è il primo passo verso la violenza. Allo spettatore, cui assegniamo il ruolo di Dante, proponiamo un percorso immersivo attraverso queste domande, in cui si trova a interagire con i personaggi e viene provocato dalle figure, specie estinte, che incontra di scena in scena.

Nel teatro che abbraccia questa formula apertamente interattiva le reazioni degli spettatori sono importanti. Un comportamento che vi ha incuriosito?
Molto spesso, per scelta e per necessità, portiamo le nostre produzioni in contesti non strettamente teatrali – anche se abbiamo partecipato più volte a festival e rassegne, in Italia e all’estero. Essere ospiti di luoghi, come Ground Social Forum, dove il pubblico non è composto solo – o in larga parte – da appassionati di teatro contemporaneo, pronti quindi ad essere sollecitati in modo diretto e a vedersi assegnato un “ruolo” drammaturgico (quello di Dante, nel caso di “Specie estinte”), fa sì che in effetti le reazioni possano essere le più disparate (quasi mai disperate, per fortuna). C’è chi ha più confidenza, per esperienza e attitudine, con la sollecitazione dell’attore. C’è chi si chiude in un timido silenzio e se può si nasconde dietro altri spettatori. C’è chi si lascia coinvolgere un po’ alla volta e una volta rotto il ghiaccio continuerebbe a interagire a lungo. Si tratta, sempre e comunque, di comportamenti che l’attore deve saper accogliere e comprendere, giocando con l’improvvisazione e capendo quale sia il limite oltre il quale anche la provocazione perde di senso. Un aspetto che ci colpisce senz’altro è l’interazione che a volta nasce non solo tra attore e spettatore ma anche tra gli spettatori stessi: in questo caso, le parole, lo sguardo e le azioni dell’attore diventano lo strumento che attiva emozioni ancora più belle e imprevedibili – che possono tradursi in risate o in sguardi complici tra gli spettatori, a seconda del clima emotivo della scena in cui ci troviamo. Quando questo accade, il teatro che proponiamo – sensoriale, immersivo e partecipativo – raggiunge la sua pienezza espressiva.

Fare i conti con la propria ignavia (vedersi in bella compagnia con coloro “che mai non fur vivi”) è una condizione imprescindibile, guardando al ritardo con cui ci si occupa di temi come quelli messi sul piatto dal Social Forum Ground (urly.it/3xcaj)
Assolutamente sì. Questa tua considerazione mi permette di completare quanto dicevo prima sulla genesi e i temi dello spettacolo. Il modello dantesco ci ha suggerito un finale aperto, che chiama in causa le nostre responsabilità e la possibilità di agire diversamente: siamo passati attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso, abbiamo avuto il privilegio di essere “vivi tra le anime morte”. Cosa faremo, ora, di questa condizione eccezionale? Fuor di metafora, oggi abbiamo tutti la possibilità di essere consapevoli del destino che stiamo costruendo per noi, le generazioni future e il Pianeta che ci ospita: possiamo e vogliamo impegnarci per dare un finale a sorpresa a una storia che sembra avere, purtroppo, un finale già scritto?
Siamo molto felici di aver portato “Specie Estinte” al Ground Social Forum proprio per la forte affinità – nei temi e prima ancora nell’approccio – che abbiamo riscontrato. Tutti gli appuntamenti in programma – concerti, mostre, presentazioni di libri e tavole rotonde, oltre ai laboratori – mi sembra fossero accomunati dalla sincera convinzione che si debbano riattivare pensieri ed emozioni, insieme, se vogliamo ripensare il nostro modo di stare al mondo in modo davvero sostenibile. L’empatia – che tante volte abbiamo dimenticato anche e soprattutto durante la pandemia – è forse la chiave per attivare quella “rievoluzione” che Ground ha posto al centro del dibattito.

La storia del collettivo Tinariwen è affascinante. Facendo ascoltare il disco si è parlato di “alternativa nomade”, si è respirata la bellezza del camminare con gli animali. I deserti, non le città, ci indicano la via per le stelle?
Parlare di “alternativa nomade” – espressione coniata dal viaggiatore e scrittore Bruce Chatwin – può suonare come una presa di posizione romantica e utopistica. In quanto tale, anche irrispettosa di culture e popoli che spesso vedono la propria identità nomade aggredita dal modello stanziale dominante. In realtà, il fatto stesso di riconoscere che questa alternativa esiste è un ottimo antidoto in un mondo claustrofobico, dove sembra valere un unico modello dominante e siamo costantemente scoraggiati di fronte anche solo all’idea di immaginare che le cose potrebbero andare diversamente. Ricordo che all’inizio della crisi economica del 2008, la regina Elisabetta II andò in visita alla London School of Economics e chiese ai professori e ricercatori di uno degli istituti più prestigiosi al mondo come mai non fossimo riusciti a prevedere quello che era appena accaduto. Un po’ imbarazzati, le risposero che ciò era stato causato da una mancanza di immaginazione. Ecco allora che, tornando alla tua domanda, ascoltare storie differenti – anche queste, ahinoi, a forte rischio di estinzione – ci permette di nutrire il calcolo di immaginazione e mettere in questione un ritornello che ascoltiamo da 40 anni: “There is no alternative”, non c’è alternativa. I Tinariwen, collettivo tuareg originario del Mali, per il fatto stesso di esistere ci ricordano che esistono altri modi di vivere e di esprimersi – con tutte le contraddizioni che ogni storia umana porta con sé. Come ricordavi, nei loro ritmi ipnotici e nell’intreccio di chitarre elettriche, percussioni e battiti di mani, cori e voci soliste si sente l’andatura dell’uomo in sintonia con gli animali e l’ambiente che li ospita.
Venendo alla tua suggestione, non credo che si tratti di sostituire le città con i deserti – o con qualsiasi altro ambiente non antropizzato – come fonte di ispirazione per il futuro. Ad essere decisivo, piuttosto, è il nostro modo di guardare – e quindi di entrare in sintonia ed empatia – con gli spazi e le altre forme di vita, ovunque siamo. Su questo, torna sempre a interrogarmi e guidarmi una riflessione di Walter Benjamin, tratta dal suo libro di memorie Infanzia berlinese: “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta”. Forse, oggi avremmo bisogno di smarrirci – e di farlo insieme.

Il 29 aprile

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