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Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Interviste

A tu per tu con Luciano Marigo

Le chiavi nascoste

Pubblicato il 07-04-2009
Visto 2.425 volte

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Elena Donazzan

”Scrittore cattolico” è un’etichetta pesante anche di questi tempi in cui riluce ovunque il miraggio dell’intercultura

Questa etichetta fino a qualche anno fa non la voleva nessuno e di questo rifiuto si davano le opportune giustificazioni circoscrivendo il problema dentro i confini del pensiero estetico e perciò invocando il principio dell’autonomia dell’arte. L’arte è arte e basta, si diceva. Ma questo voleva solo dire una verità ovvia: che rispetto al valore artistico la connotazione cristiana non aveva alcuna rilevanza. Che era come dire: se un romanzo cristiano è bello, è bello perché è bello e non perché è cristiano. Oggi questa etichetta neanche te la danno perché se sei uno scrittore cristiano non sei neppure uno scrittore. Ciò avviene perché oggi si è allargato il dominio, allora meno diffuso, del principio che “se è cultura non è cristiana e se è cristiana non è cultura”. Dunque, scrivere un romanzo ispirandosi all’immaginario cristiano significa mettere il treno su un binario morto. Personalmente non mi disturba molto che il lettore laico non si interessi ai miei romanzi, anzi, lo trovo abbastanza naturale; mi inquieta invece che i miei romanzi possano non interessare al lettore cristiano. Lo considero un segnale che la secolarizzazione fa il suo corso anche presso i cristiani.


In un’intervista ha affermato che lei non scrive a tutti i costi, ha detto “non ho la malattia dello scrivere”. I suoi libri sono dedicati a tessere con fili di parole i momenti in cui si coglie e si comunica il senso religioso che permea la vita umana. davvero non scriverebbe se non potesse parlasse di fede?

Non sento un bisogno insopprimibile di scrivere, è vero. Ma se scrivo non posso non esprimere l’immaginario che mi è proprio. E il mio immaginario è l’immaginario cristiano. Si dice immaginario l’insieme delle rappresentazioni simboliche che esprimono una cultura, cioè il modo di pensare la (propria) vita. Per rinunciare al mio immaginario dovrei autocensurarmi, che sarebbe un’operazione masochistica. D’altra parte riconosco di avere un sentimento drammatico della vita; il che vuol dire che sento la vita come fatica e impegno da onorare. Mi pare che il punto nel quale maggiormente si esprime la nobiltà dell’uomo sia la ricerca del significato che è appunto, per definizione, la domanda religiosa. O c’è la grande speranza o ci sono solo le speranze piccole, le quali all’occorrenza sanno tradire e sono comunque radicalmente insufficienti.

In cosa consiste la “fatica di non credere”?

Con questo titolo una quarantina di anni fa ho scritto un breve saggio sulla fede. Non credere significa non possedere la grande speranza; avere la fede al contrario significa confidare che la vita dell’umanità non sia sorta per caso ma sia sgorgata da una volontà buona e amorosa. Senza questa fiducia la vita fa paura. In questa ottica l’espressione “la fatica di non credere” significa anche ripugnanza logica a non credere, col significato che emergerebbe quando dicessi che la mia mente e il mio cuore stentano a non credere.

Lo scavo profondo nell’animo umano richiede uno spazio e un tempo dedicati all’isolamento, ha un prezzo alto da pagare

Faccio vita appartata ma non vivo isolato. Non so raccontare barzellette e neanche rido tutte le volte che ne sento raccontare. Ma sono sereno perché ho la grande speranza. Ho avuto la fortuna di capire fin da ragazzo che la fede cristiana è un grande amore. Potrei anche dire che non mi diverto a vivere; che ho ben presente i punti critici dell’esistenza umana; che ho presente quanta sofferenza costa la vita all’umanità. Per tutte queste ragioni non so come si possa vivere spensieratamente. Tutto ciò mi riguarda prima come uomo che come scrittore

La “distanza irraggiungibile” di cui parla Cristiana, la protagonista de “La stanza del cuore”, può dare origine alla vertigine, alla follia... ma anche alla poesia?

La “distanza irraggiungibile” di cui parla Cristiana può dare origine alla vertigine. Ma dà origine alla vertigine anche il fatto che questa infinita distanza è colmata dall’incarnazione di Dio: alla vertigine della disgregazione si sostituisce la vertigine dello stupore e questo miracolo è il frutto della fede. In questa prospettiva la poesia sarebbe antagonista di Dio perché rappresenterebbe la pretesa di colmare essa la distanza invalicabile. Fidarsi della nostra poesia sarebbe come accontentarsi di un sogno.

E’ sempre la donna che illumina la via, è lei il tramite per lo spirito?

Nei miei romanzi la via verso la salvezza è più spesso offerta alla sensibilità della donna; non so tuttavia dare una ragione di questa circostanza che non risponde a una scelta ponderata e voluta ma a un movimento istintivo della fantasia.

Quanto influisce l’etica di vita nelle parole di uno scrittore, nelle sue opere

Si può dire che nelle storie che ho raccontato si celebra la bellezza della santità. Rispetto ai santi io mi trovo come rispetto agli eroi si troverebbe lo scrittore che scrivesse storie di guerra senza avere fatto il servizio militare neanche in fureria. Io credo di essere un cristiano medio piccolo, più piccolo che medio. Detto questo, certo se la fede cristiana non fosse nella mia vita un’esperienza invasiva non scriverei le storie che scrivo. E infine, della mia povertà mi consolo facendo mio il pensiero che Mattia, il protagonista dell’Ultimo Giorno, apprende da Suor Liberata: “La fede è una cosa così grande che anche se ne hai poca ti basta perfino a rendere sopportabile la tua mediocrità”.

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