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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Magazine

Modalità lettura 1 - n.11

Un'incursione nella poesia, grazie a una recensione di Alessandra Caron che guarda all'opera di Wislawa Szymborska

Pubblicato il 17-05-2020
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Una recensione che invita a un’incursione nella poesia d’autore inviata alla nostra rubrica dedicata ai libri e alla lettura da Alessandra Caron, che ringraziamo.

Dice Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923 - Cracovia, 1º febbraio 2012), scrittrice polacca: «La poesia – ma cos’è mai la poesia? Più d’una risposta incerta è stata già data in proposito. Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come all’àncora d’un corrimano».

tratta dal film The Island, ispirato all'opera della poetessa polacca

Ma è davvero possibile aggrapparsi alla poesia? Anzi, evitando idealizzazioni, è possibile anche solo pensare alla poesia nei periodi di difficoltà? Quando emergenze, paure, ineluttabilità confermano con spietatezza che realtà e immaginazione non coincidono. Quando una quotidianità sufficientemente rassicurante, spesso decantata dalla letteratura, all’improvviso è cancellata come potrebbero essere cancellati gli appunti a matita sulla pagina. È possibile pensare alla poesia mentre la razionalità rinnova la consapevolezza che le vite si salvano grazie alla scienza e alla medicina, non con gli endecasillabi e le rime? In mancanza di parole proprie, bisogna chiederle in prestito ad altri e tra questi altri, celia della sorte, ci sono anche i poeti che propongono le loro risposte, a seconda dei momenti sono barlumi oppure luci vivide, con una forma di coraggio che contagia in modo giovevole aiutando il pensiero a rigenerarsi.
Ci informa Wisława Szymborska con un verso di un’altra poesia: «Miei segni particolari: incanto e disperazione». Che lei parli di se stessa o di tutti gli esseri umani non ci deve interessare; questo verso potrebbe suggerire non tanto che l’incanto può annullare ogni disperazione, quanto piuttosto che la disperazione non deve avere il potere di annullare ogni incanto. E l’incanto chiunque ha il diritto di trovarlo, di provare a trovarlo, dove vuole. Lei lo trova nelle persone e nelle situazioni consuete, nelle esperienze singolari o collettive, nei particolari della natura e della quotidianità dove l’ordinario può essere considerato straordinario, perché unico è il modo di ciascun soggetto di osservare e interpretare la vita.
La gioia di scrivere (a cura di Pietro Marchesani, 2009, Adelphi Edizioni Milano, 774 pagine, 19 euro) riunisce le poesie di Wisława Szymborska dal 1945 al 2009: creazioni caratterizzate da specifici accorgimenti stilistici – tra tutti ad esempio il paradosso, l’ecfrasi, l’enumerazione, la ripetizione – e capaci di scandagliare la condizione umana usando toni colloquiali, solo in apparenza semplici. Le sue poesie sono paragonabili a brevi saggi filosofici, ancorati alla concretezza, e la densità concettuale spesso è favorita anche da una saggia ironia.
Pietro Marchesani, suo fedele traduttore in Italia, inizia l’introduzione della raccolta con una domanda: «Come non ricordare lo stupore [...] con cui fu accolta nel nostro paese l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura 1996 alla poetessa polacca Wisława Szymborska, considerata dai più un’illustre, imbarazzante sconosciuta?». Poi la poetessa, a poco a poco, è diventata familiare a un vasto pubblico, grazie a tematiche affrontate con uno sguardo attento ai dettagli e guidato dal socratico “sapere di non sapere”: il caso, la vita, la fugacità, la morte, l’amore, il sogno, l’incanto, la donna, la poesia, la tradizione, l’utopia, ecc.
Per un approfondimento è consigliabile il testo: Szymborska. Un alfabeto del mondo. Ventuno saggi per ventuno poesie della grande scrittrice premio Nobel (a cura di A. Ceccherelli, L. Marinelli, M. Piacentini, 2016, Donzelli Editore Roma, 274 pagine, 26 euro). Un libro per comprendere come questa poetessa, riservata e poco incline a rilasciare interviste, sia diventata un fenomeno letterario e mediatico: i suoi versi compaiono in articoli di giornale e sui muri delle città, le sue parole sono citate nelle aule universitarie e nei dibattiti televisivi. Un libro utile, quindi, come lo sono tutti quelli che illustrano i contenuti e le peculiarità stilistiche delle varie tipologie di scrittura. Eppure, al di là di valutazioni esperte, di analisi tecniche e di recensioni rimane pur sempre la scelta di ciascuno di privilegiare alcune poesie, non per trovare un conforto illusorio bensì per non disimparare a immaginare momenti belli. Sull’onda della soggettività si potrebbero citare decine di versi suggestivi e graditi, ma ciò non renderebbe giustizia né all’opera di Wisława Szymborska, ridotta a una sorta di ricettario, né alla libertà di ogni persona di decidere se, cosa, quando e perché leggere. Ogni persona può scegliere le modalità più congeniali a sé, non necessariamente letterarie, per ricordare una quotidianità perduta e poi, una volta che è ritornata, impegnarsi a pensarla e a trattarla con maggiore gratitudine e con incanto – quanto basta, in un modo o in un altro, purché ci sia – ricordando che la Vita può creare Poesia.
Nel testo biografico Cianfrusaglie del passato. La vita di Wisława Szymborska (Anna Bikont e Joanna Szczęsna, Adelphi Edizioni Milano, 2015, a cura di Andrea Ceccherelli, pagine 455, 28 euro) c’è una frase esclamata con entusiasmo dalla poetessa di fronte a una particolare realtà ammirata durante un viaggio: «Tutto questo non merita la fine del mondo». È una frase comune, non eccezionale, chiunque avrebbe potuto dirla, non solo un Premio Nobel... anzi, a pensarci bene, è straordinaria proprio perché ciascuna persona comune può dirla. Ora e sempre.

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