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Opera Estate Festival

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Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

A tu per tu con Marta Baiocchi

La ricercatrice, in veste di autrice di “Cento micron”, è protagonista con Simone Lenzi dell’appuntamento conclusivo del Piccolo Festival in cui si parlerà anche di fecondazione artificiale e delle declinazioni del rapporto natura-scienza

Pubblicato il 01-07-2012
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Può riassumere in breve, in piccolo, cosa ha voluto raccontare nel suo libro?

Soprattutto, un punto di vista. O meglio, i tanti punti di vista di chi certe questioni – la scienza, la ricerca, le biotecnologie – le vive quotidianamente. Lo sguardo di chi ci lavora, di chi fa ricerca di base, chi sviluppa e vende tecnologia. Il punto di vista di chi le tecnologie le desidera, le usa o vuole usarle. Mi sembrava che i dibattiti televisivi, gli articoli sui giornali, rimanessero sempre troppo teorici, astratti, e a volte addirittura svianti. Mi sembrava che mancasse un racconto più diretto, più immediato: è quello che ho cercato di fare.

libri artistici in esposizione al Piccolo Festival, a cura di AreaArte


Il romanzo ha come tema centrale la maternità posta come desiderio naturale, non indaga il perché, il mito della generazione.

In realtà, il concetto di “naturale” mi lascia sempre molto perplessa. Gli uomini, e le donne, nei corso dei millenni da quando esistono, hanno mutato così tante volte e così profondamente le relazioni con i propri simili e con il mondo che li circonda, la stessa immagine che hanno di sé, che definire “naturale” un comportamento, una legge, un ambiente, mi sembra piuttosto equivoco. È stato naturale scoprire l’agricoltura per gli uomini primitivi? È stato naturale aumentare la durata della propria sopravvivenza, scoprire e usare gli antibiotici o la pillola anticoncezionale? Credo che nessuno sia in grado di dire fino a che punto l’aspirazione alla maternità sia un desiderio biologico e fino a che punto sia culturale, quanto sia un mito o, a volte, un’ossessione. Quello di cui mi sento sicura, è che il rapporto degli esseri umani con la propria prole è certamente cambiato molto rispetto ai tempi in cui le donne avevano, durante l’arco della propria vita, otto, dieci, dodici figli, di cui solo tre o quattro sopravvivevano. È per questo che credo che nuove tecnologie, alcune più prossime, altre ancora difficili da immaginare, potrebbero cambiare di nuovo un giorno, anche radicalmente, il concetto di maternità che abbiamo oggi.

Nel racconto si apre una finestra sul campo della ricerca, il riflettore è posto sui paletti che mette la legge degli uomini e che recintano il terreno delle possibilità: ciò che difendono è solo un’idea di etica o anche uno stato delle cose governabile, sotto controllo?

La mia tesi è che le cose che accadono, gli eventi, e più specificamente l’avanzare della tecnologia, non sono, mai, governabili. Se guardo al passato, mi sembra di vederne tutta l’evidenza: forse solo per strumenti di distruzione totale come la bomba atomica, gli esseri umani sono riusciti a darsi, almeno finora, un qualche limite. Non certo per tecnologie, sia pure considerate immorali al loro apparire, che promettessero attenuazione del dolore o, semplicemente, maggior piacere. Che sia possibile, specialmente nel mondo contemporaneo, formulare un’idea di etica sulla quale indirizzare i comportamenti della società, è cosa di cui dubito fortemente. Piuttosto, mi sembra che allorché il mondo e le azioni dell’uomo cambiano, l’etica, prima o poi, finisce per adeguarsi.

La ricercatrice protagonista del romanzo opera in un ambiente baronale, in parte corrotto da meccanismi che nulla hanno a che fare con la scienza, che appartengono al mondo dell’economia e della finanza: quanto questa descrizione romanzata attinge alla realtà?

Il peso dell’aspetto economico sulla ricerca scientifica, che diventa sempre più costosa ogni anno che passa, è incalcolabile. Limitarsi a gridare contro le multinazionali, contro i colossi farmaceutici, è per lo più ingenuo e inutile. Certo, sono state fatte cose illegali e spregevoli, da parte di alcune aziende, nei confronti della salute dei cittadini e del denaro pubblico. In questi casi non c’è molto da interrogarsi: sono comportamenti da punire con il massimo rigore e senza esitazioni, eventualmente aumentando il controllo e i deterrenti per il futuro.
Ma anche in una situazione ideale, in cui le aziende si comportassero nel più specchiato dei modi, si pongono oggi interrogativi complessi se non inestricabili. Un solo esempio: le cosiddette malattie orfane, cioè quelle che contano così pochi casi al mondo che nessun’azienda può permettersi di studiare, perché se anche si trovasse il farmaco giusto, le vendite non riuscirebbero mai a compensare il costo della ricerca e sviluppo. È evidente che non si può costringere un’azienda, e tantomeno i suoi lavoratori a lavorare gratis. Esistono gruppi di opinione mondiali, che chiedono agli stati nazionali di farsi carico del costo della ricerca sulle malattie orfane, ma col diminuire delle risorse pubbliche in tutti i paesi, è evidente che i governi non possono rispondere che in modo molto limitato.
Il problema della ricerca e della tutela della salute in rapporto alle scelte economiche pubbliche e private sta diventando sempre più spinoso, oggi che, al crescere della tecnologia, i costi sono in continua ascesa, mentre le risorse diminuiscono costantemente. Trovare risposte adeguate sarà un lavoro difficile e faticoso.

Non ci sono buoni e cattivi tra i personaggi che si muovono nella storia, ognuno opera per un suo fine, qualcosa in cui crede e che ritiene legittimo, sembra assente un giudizio morale.

Su questo voglio raccontare un aneddoto: quando James Watson, nel 1968, pubblicò il suo libro La doppia elica, in cui raccontava i retroscena della scoperta del DNA, per la quale lui e i colleghi avevano ottenuto il premio Nobel, destò scandalo la sua disinvoltura nel riferire alcuni episodi. Per esempio, il fatto che lui e Francis Crick, per poter vedere alcuni dati di cui erano curiosi, una notte, avevano semplicemente forzato la porta dello studio di un collega e frugato tra le sue carte. Oppure che, dopo una snervante attesa, nel leggere finalmente l’attesissimo articolo di Linus Pauling in cui si diceva fosse rivelata la struttura del DNA, lui e Crick si resero conto che la descrizione di Pauling era del tutto sbagliata e, felici di scoprire che la gara era ancora aperta, se ne andarono a brindare a champagne per celebrare l’errore dell’avversario.
Il libro di Watson è interessante e divertente, e dice molto sulla ricerca e sulle personalità dei ricercatori. E d’altra parte, perché pensare che solo nella scienza non entrino in gioco sentimenti umani come l’ambizione personale, il desiderio di potere e di denaro? La scienza è un’attività meravigliosa perché mette in gioco il rapporto dell’essere umano col reale, la sua capacità di immaginazione e comprensione, ma considerare i ricercatori come esseri asettici fatti di puro pensiero è, semplicemente, un grosso errore.

Nella coppia Eva (la ricercatrice) e Guido (lo scrittore) i nomi sono evocativi dei ruoli che interpretano nel ménage e nel racconto. Come da copione, uno dei due a un certo punto dichiara che vorrebbe un figlio (lui), lei gli risponde che non lo vuole, la narrazione è coerente: a lei che indaga con tanto impegno il come sfugge l’aspetto più importante, il perché.

Penso che la tua interpretazione sia giusta, ma non condivido il fatto che il “perché” sia la cosa più importante: quello che importa è quello che realmente accade, quello che realmente si fa. Le motivazioni sono facili da falsificare, da ricostruire artificiosamente a posteriori. È facilissimo, a mio avviso, fare la cosa giusta per le ragioni sbagliate, o compiere azioni anche molto crudeli per ragioni che sembravano le migliori. Più spesso, poi, semplicemente, non si arriva neanche a capirlo, per quale ragione avevamo fatto quella tale scelta invece di quell’altra. No?









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