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Radici

Una donna racconta

I tempi difficili tra le due guerre, il secondo conflitto mondiale, gli anni Cinquanta, lo sviluppo e il benessere nel racconto di una donna

Pubblicato il 10-11-2009
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Elena Pavan

La famiglia di Giuditta Basso era originaria di Asiago e da anni ormai si era trasferita a Rubbio. Per quei tempi, il nucleo famigliare poteva dirsi benestante: viveva dell’allevamento di mucche e maiali, di latte e formaggio. Lavoro non ce n’era, gli uomini perlopiù erano costretti ad emigrare, a chi restava toccava la miseria. Venne un giorno una famiglia a chiedere la carità; Giuditta aveva allora sette anni appena e di nascosto diede ai poveretti tre parti di farina.
Alcuni anni più tardi, il cognato Menego era partito per la campagna di Russia, faceva parte della Divisione Forzesca. Nel mezzo di una bufera il destino lo aveva fatto incontrare con un militare di Fontanelle, e insieme erano riusciti a tornare.
“Poi è partito Bruno, che era nato nel 1925” racconta Giuditta. “Era il gennaio del ‘44 quando a casa arrivarono i fascisti”. Cercavano Bruno, che dopo il settembre ‘43 insieme a molti altri non aveva fatto ritorno tra le fila dell’esercito. “Tutti dormivamo, i fascisti entrarono di forza, minacciavano di bruciare la casa, di buttare una bomba. Eravamo terrorizzati, sapevamo che ne erano capaci, era già toccato ad altre famiglie in paese, accusate di aiutare i partigiani”. Allora Bruno scese dalla soffitta dov’era nascosto e si consegnò ai militari; il capo dei fascisti gli aveva dato un sonoro ceffone e l’anziana mamma, incurante della divisa, l’aveva reguardito “Pian, ché l’è me fioio”. Bruno l’avevano portato in Germania, scrisse una volta che Mussolini era passato in rassegna. Dopo circa tre mesi l’avevano rimandato in Italia a Genova; ma non lo rividero più, perché il 30 agosto 1944 Bruno rimase ucciso, dissero, durante una sparatoria. Per tre giorni era rimasto ferito in una chiesa, accudito da un’ infermiera. Seppero della sua morte solo due mesi più tardi, e da alcuni anni la sua salma riposa al cimitero di Rubbio.

Rubbio

Angelino aveva chiesto a Giuditta di sposarlo prima di patire per il fronte: doveva essere una “guerra lampo” e Angelino sperava di tornare presto a casa. Era il 16 febbraio 1942 quando i due giovani si unirono in matrimonio. A luglio Angelino era tornato per una breve licenza, poi per lunghi mesi di lui più nessuna notizia. A casa Giuditta attendeva l’arrivo della loro primogenita, quando ricevette un giorno una busta chiusa con dentro un pezzetto di giornale in cui si leggeva: “Sono diretto in Germania”. Qualcuno aveva raccolto i messaggi che Angelino insieme ad altri disperati avevano gettato dal treno e li avevano fatti recapitare alle famiglie.
Quando la piccola stava per nascere, l’ostetrica chiamò il medico, un colonnello fascista. Giuditta ricorda ancora la pistola appoggiata sul letto. Quella notte sognò un lungo spago teso nella stanza con tanti attaccapanni appesi; una voce le spiegava che ognuno rappresentava una partoriente: “Quando si muove è in pericolo di vita e quello inclinato sei tu”, disse la voce. Giuditta rischiò una setticemia, addirittura il mattino dopo venne il parroco per darle gli olii santi.
Giuditta si riprese. Intanto Angelino finalmente tornava; per strada incontrò un uomo delle Saline e gli chiese notizie di casa: “Bruno è morto e a casa ti aspetta una figlia”, disse quello. Germana già muoveva i primi passi e Angelino, che era artigiano, costruì per lei un girello in legno.
Giuditta aveva vissuto diciotto anni in casa con la famiglia del marito, quando chiese ed ottenne dal padre di avere un pezzo di terra, dove Angelino costruì per la famiglia una casa su due piani. Ma ancora i loro sogni dovevano attendere: per tre anni infatti l’edificio fu occupato dagli alunni della scuola andata a fuoco.
Alla fine degli anni ’50 Angelino aprì il suo laboratorio di falegnameria nel garage; Giuditta avviò il bar, che era anche trattoria e pensione. C’era anche la televisione pubblica, arrivata in quegli anni, e le famiglie, che non avevano il televisore in casa, venivano al bar "All’Amicizia", destinato ad essere un punto di riferimento di avventori e villeggianti per oltre mezzo secolo.

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