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Rinascimento in bianco e nero

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Luigi MarcadellaLuigi Marcadella
Giornalista
Bassanonet.it

Imprese

Culle vuote e fabbriche senza operai

Lavinia Polato (Officine di Cartigliano) spiega la “molla” che ha fatto partire il progetto Giano “Fabbrichiamo il futuro”

Pubblicato il 06-05-2021
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La presentazione alla stampa del progetto Giano “Fabbrichiamo il futuro” ha suscitato interesse anche oltre i confini bassanesi. Gli organizzatori fanno sapere che dalla vicina Marostica hanno chiesto informazioni per allargare già da subito il raggio d’azione dell’iniziativa. Vuol dire che il ragionamento degli imprenditori e dei commercianti cartiglianesi ha colto nel segno: il default demografico comincia piano piano ad essere preso sul serio. Ultimi dati Istat alla mano: a gennaio sono nati in Italia 30.767 bambini, il 14% in meno rispetto ad un anno fa. Del rischio di un’economa a culle vuote e delle incognite di una decrescita infelice dei territori a corona dei grossi centri urbani, torniamo a parlare appunto grazie agli sviluppi del progetto Giano. Questa volta con Lavinia Polato, amministratrice delle Officine di Cartigliano, marosticense, terza generazione di imprenditori. Le Officine di Cartigliano producono da 60 anni macchine per le pelli e da qualche tempo esportano nel mondo anche sofisticati dispositivi per asciugare i fanghi industriali. Più di cento dipendenti, nel 2018 hanno raggiunto il record di fatturato superando i 34 milioni di euro mentre nel 2020, causa pandemia, dovrebbero chiudere a quota 23 milioni. «Il Covid ci ha penalizzato ma siamo fiduciosi nella ripartenza, anche perché la politica di diversificazione industriale degli ultimi anni darà buoni frutti. Oltre alle pelli, ai fanghi, abbiamo in produzione nuovi macchinari che, grazie all’utilizzo delle radiofrequenze, sanificano i liquidi e tanti altri materiali, come per esempio la cannabis per uso terapeutico».

Dottoressa Polato, perché in piena ripartenza post-pandemia avete “perso tempo” con la demografia?

Lavinia Polato (Officine di Cartigliano)

«L’idea ci è arrivata più di un anno fa dai fratelli Cappeller. Le aziende devono acquistare un ruolo sociale sempre più centrale, la fortuna del nostro Paese e delle aziende va di pari passo. Abbiamo bisogno di ragazzi in gamba, formati e preparati, non possiamo più permetterci che i migliori vadano all’estero. Se ci saranno sempre meno nascite, non ci sarà futuro per le imprese. Gli imprenditori lo hanno capito e sono disposti a metterci soldi».

Scuola, natalità, welfare per le famiglie, sono tutte questioni che ruotano attorno alla demografia ma soprattutto alla tenuta sociale del nostro Paese. Lei come mette in ordine di priorità questi argomenti? E come li metterete in pratica nel progetto Giano?
«La logica è quella di mettere i nostri territori nelle migliori condizioni possibili per essere attrattivi. Per i lavoratori, per le loro famiglie, per i figli, per l’offerta scolastica. Partirei da questa idea ambiziosa: le famiglie non devono più preoccuparsi del costo della scuola e di come organizzare la vita dei figli rispetto ai tempi del lavoro. Le coppie devono tornare a pensare di poter fare uno, due, tre figli, senza essere penalizzate nel reddito e nella vita quotidiana. E le donne dovranno poter lavorare con le stesse opportunità degli uomini».

Se dovesse fare da ambasciatrice del progetto Giano negli altri territori del vicentino, come convincerebbe gli imprenditori a metterci soldi? Soldi veri, perché va ribadito che voi date una percentuale del fatturato.
«Userei una logica da ufficio acquisti: si tratta di un investimento. In quanto tempo si ripaga? Do ut des, pago per dare dei servizi ai nostri abitanti e in un tempo “vicino” ci sarà un ritorno. Se tra dieci anni non troveremo ingegneri, tecnici e operai non potremo più farci niente. È un investimento a medio termine per le aziende. Per i commercianti è invece ancora più immediato: le famiglie avranno più reddito disponibile e potranno spendere e consumare di più. Pensate a quanto può costare un bambino dall’asilo alle Superiori. Il benessere diffuso è un bene comune».

Sabato scorso si è festeggiato un primo maggio particolare: la pandemia ha spazzato via un milione di posti. Come se lo immagina il futuro del lavoro in un Paese con una natalità in caduta libera?
«Se i territori collassano dal punto di vista demografico il rischio è quello di vedere sparire tante imprese eccellenti. E’ plausibile per una delle aree più industrializzate del pianeta che chiudano le fabbriche per mancanza di operai e di tecnici? O che delocalizzino in giro per il mondo in cerca di manodopera? Bisogna fare qualcosa prima che questo accada. Gli allarmi sono già tutti accesi, basta vedere come chiudono le classi nelle scuole».

Il ministro dell’Economia Daniele Franco è veneto, laureato in Scienze Politiche a Padova, e conosce benissimo l’economia di questa regione. Se fosse stato presente alla conferenza di Villa Cappello cosa gli avrebbe chiesto per industria, giovani e lavoro? Una cosa sola.
«Non è una vera e propria richiesta. Chiederei alle istituzioni di trovare i giusti canali per far innamorare i nostri giovani del lavoro in azienda. Non è banale spiegare ai ragazzi che lavorando in un’azienda italiana si possono ottenere grandi successi, nella maggioranza dei casi superiori a quelli offerti da una carriera da calciatore o da sportivo. È un’operazione culturale che non può che partire dalle scuole».

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