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Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Teatro

Thérèse: narrata in bilico tra teatro e cinema

La rassegna teatrale bassanese ha chiuso il sipario con lo spettacolo scritto e diretto da Stefano Ricci da un romanzo di Zola

Pubblicato il 12-04-2025
Visto 5.375 volte

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Elena Pavan

Ultimo spettacolo della rassegna teatrale bassanese 2024-2025, Thérèse, di Stefano Ricci, con protagonista Donatella Finocchiaro, ha concluso al Remondini in due serate, mercoledì 9 e giovedì 10 aprile, il ciclo di nove titoli in cartellone, un programma definito in collaborazione con il circuito Arteven.
La produzione del Teatro Biondo di Palermo ispirata a un romanzo di Émile Zola è andata in scena in un allestimento contemporaneo corale, interpretata oltre che dalla nota e apprezzata attrice siciliana, la sua una carriera ormai ventennale spesa tra cinema, televisione e teatro, da Alberto Carbone, Giulia Eugeni, Alessandra Fazzina e Giulio Magazzù (operatore di ripresa sempre impegnato sul palco).
Autore del testo e della regia Stefano Ricci, coadiuvato alla direzione da Liliana Laera, per la prima volta in solitaria dopo la scissione del sodalizio con Gianni Forte – tra le altre cose per un quadriennio, dal 2021 al 2024 il duo artistico è stato ai vertici della Biennale di Teatro di Venezia.

da Thérèse, in scena in doppia serata al Teatro Remondini

Ricci ha proposto uno spettacolo che ispirandosi alla storia, ma soprattutto ai temi del Naturalismo indagati da Zola, ha proposto coniugati cinema e teatro e ha restituito allo spettatore uno sguardo d’autore rivolto soprattutto ai personaggi-attori, nel loro lavorio intenso, intellettuale e fisico insieme: un corpo a corpo con il dramma scelto, i suoi aspetti evocativi e le possibilità del linguaggio del teatro.

Il palcoscenico occupato da un’enorme scenografica pedana inclinata realizzata a cura di Eleonora De Leo, a suggerire l’instabilità della condizione umana; sul fondale uno schermo dove si poteva seguire in presa diretta ciò che avveniva sul palco e sotto di esso, nel cosiddetto fuori-scena, tutto inquadrato da vicino dall’operatore – lo schermo da cinema utilizzato anche come elemento di narrazione e struttura ospitante delle didascalie; la trama del romanzo Thérése Raquin (Francia, 1867), figura femminile apparentabile da lontano a Emma Bovary o ad Anna Karenina, lasciata appositamente in dissolvenza a favore delle inquadrature del presente; momenti con quadri statici, quasi pittorici, e poi un movimento di corpi e figure a tratti traducibile in danza, a tratti acrobatico e circense, continuo (a firma di Stellario Di Blasi); i personaggi in scena tutti chiamati col proprio nome di battesimo, Donatella-Thérèse in primo piano: questi gli ingredienti della rilettura di Ricci, proposti in amalgama in uno spettacolo che ha come cifra stilistica e concettuale la destrutturazione, che lascia intatti solo orizzonti di senso.

Indossate bianche tute imbottite da esploratori d’Antartide – lo spazio freddo, emotivo, del lutto, dell’assenza – o esibitisi nudi in danze eleganti, in momenti intensi di farfalle appassionate; inquadrati fermi e padroni del ritratto in cornice o “sorpresi” a testa all’ingiù, tra le impalcature di un sotterraneo, da una telecamera ossessionante, rivelante che anche l’attore inscenando il suo personaggio sotto la pelle nasconde qualcos’altro: gli interpreti sul palco vivono in modo sincronico una molteplicità di “azioni” intraprese da corpo e pensiero, collocati in bella vista atto o immobilità.
Al centro, il meccanismo della botola, elemento separante conscio da inconscio, fare da pensare, progetto da realizzazione, bene da male.
Ve ne sono sette sulla piattaforma, di queste aperture/breccia tutte praticate dagli attori che mettono in relazione, con le distorsioni e le difficoltà del caso, ciò che siamo con ciò che facciamo. Con esso, altrettanto meccanico e altrettanto posto in luce, l’occhio-telecamera destinato a filmare in teoria oggettivamente-naturalmente ciò che accade, uno sguardo che senza consapevolezza, come avviene nella realtà, fornisce nel contempo una propria interpretazione a specchio di ciò che la vita pone in svolgimento davanti ridotto a un inevitabile frammento, mentre attorno succede molto altro – se neanche il reale, il tangibile, può essere abbracciato per intero, figuriamoci ciò che avviene nell’animo umano nei suoi momenti di tempesta. Laddove anche la parola, strumento del pensiero, diventa altamente fallibile, l’azione non si rivela più traducibile, con buona pace di chi si cimenti nell’umano interpretare.

L’operazione di deframmentazione compiuta da Ricci, complici immagini, musiche e performance attoriali di qualità, ha in questa prospettiva di sicuro un senso profondo, estetico e culturale. C’è poi lo sguardo dello spettatore, lasciato fermo al buio, a cogliere tutto ciò che muove l’azione scenica, parole-immagini-gesti, e ad elaborarlo coniugando tra loro i cenni alla trama del romanzo, i tanti piani di accadimento, nella loro non linearità di tempi e spazi, i diversi linguaggi espressivi utilizzati, impegnato in un continuo lavorio concettuale. D’altro canto, davanti al piano inclinato “vivente” rivolto verso la platea e tra i meandri-labirinto sotterranei, lo spettatore non è lasciato del tutto inerme, è invitato con Thérèse-Donatella a praticarli anche lui.
Applausi calorosi, dal pubblico del Teatro Remondini.

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