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Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

A tu per tu con Cosimo Argentina

Nell’intervista di Bassanonet, Argentina parla del suo nuovo libro che ha presentato a fine giugno al Piccolo Festival della Letteratura: Per sempre carnivori

Pubblicato il 01-07-2013
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È stato ospite di Palomar alla terza serata del festival, e sull’onda della conversazione tenuta sul palco di Palazzo Bonaguro, Cosimo Argentina dona alcune note a pie’ di pagina dedicate ai suoi lettori.

Il tuo testo è tratti forte e violento – molti l’hanno definito pulp –, la vicenda ha anche dei risvolti tragicomici, ma il mondo in fibrillazione che racconti si dibatte pieno di vita: spera ancora in una rianimazione, in una resurrezione… “nell’amore”?

Cosimo Argentina (a sx) sul palco del Piccolo Festival con Mattia Pontarollo


Rifiutando come da copione le etichette che sono sì comode, ma riduttive, ti dico che scrivendo la storia non mi sono posto il problema di ciò che accade dopo. È il lettore, il critico, il giornalista che in questo caso sono illuminanti. Mi ritengo un narratore. Un narratore scrive le sue storie e lo fa per se stesso e per essere amato dagli altri. Per far sì che gli altri si accorgano della sua esistenza. Forse lo spunto dell’amore è meta letterario. Forse il nocciolo è questo.

È il per sempre che sta prima di carnivori a inquietare di più, oltre al fatto che i carnivori siano anche dei cannibali.

Ciò che siamo resteremo. Non ci è data nessuna possibilità di modificare biologia e fato. Se uno nasce in una baracca di una bidonville nell’Africa nera nasce male, poche storie. E avrà un mucchio di difficoltà in più rispetto ai figli di alcuni miei amici che vivono in collina, mandano la bambina a danza, il bambino a fare sport, passano i week end in montagna e hanno i soldi per assicurare un futuro ad almeno tre generazioni.

Il male della scuola che hai voluto rappresentare, aggravandolo, nel tuo libro ha secondo te una cura? Hai qualche terapia da consigliare?

La scuola muore di burocrazia. Manca la fantasia. Un mio amico ed ex collega è stato posto in pubblica gogna per aver inserito in un programma di italiano i grandi gruppi rock europei. Siamo uguali a noi stessi e mascheriamo la palude con Pof (Piano dell’Offerta Formativa), Pep (Piano educativo personalizzato) e cose del genere. Sinceramente sono pessimista.

Nei libri presentati al festival ritorna di frequente il tema della lotta travestita da pugilato, da competizione sportiva, come torna il tema del precariato. Tu racconti una lotta persa in partenza, l’esito del combattimento era già dettato da condizioni che rendono vana ogni umana speranza di redenzione o di riscatto, dalla malasorte?

È molto meridionale, me ne rendo conto. Ed è molto tragedia greca. Ma ognuno di noi nasconde una tragedia a cui è scampato. Chi legge queste righe adesso magari ha in famiglia un rito funebre alle porte oppure non sopporta la moglie oppure ha un figlio tossico che non riesce ad aiutare. Perfino i potenti hanno i loro drammi. Quanto alla redenzione, al riscatto e ad altre cose del genere solo chi ha grande forza d’animo può tirarsi fuori. Per gli altri è amara. A proposito del combattimento invece forse siamo tutti figli di Ernest Hemingway.

“È il branco che fa giurisprudenza”, scrivi. Eppure alla fine, anche nel romanzo, ognuno è uno, ed è solo. Che tipo di fratellanza illusoria, da sbronza, c’è in questo branco di uomini che alla fine riconosce che si metafotte?

Il peggio viene dalle aggregazioni. Ma anche il meglio. Le guerre, le risse da stadio, le spedizioni punitive, le lotte tra gang… tutto nasce da due o più individui che si spalleggiano nelle loro paranoie. Individualmente siamo tutte brave persone, ma unite diventa un disastro, almeno io la vedo così. Il killer seriale viene visto come un’anomalia. Addirittura lo stupro di massa riceve un trattamento diverso dallo stupro individuale.

C’è tanta Puglia nei tuoi libri. In Vicolo dell’acciaio hai raccontato il popolo che vive ai piedi dell’Ilva, e che muovendosi fa muovere questo grande colosso dal morso letale, carnivoro anch’esso. Quella madre alla fine Medea è proprio terribile.

Qualcuno mi ha accusato di non aver messo l’Ilva in Carnivori. Ma in realtà aleggia sempre. Nei miei libri scrivo di quello che so e io conosco bene due scenari: Taranto e l’Hinterland nord di Milano. Quelli sono i miei scenari. Inoltre allontanandomi da Taranto ne ho acuito l’interesse. Attenzione però: parlo di Taranto e non di Puglia. Ma nei miei prossimi scritti ci saranno anche il Salento e la valle d’Itria, forse.

Puoi spiegare il ruolo che hai destinato alle donne-madri di Per sempre carnivori? E alle altre?

Hanno una capacità di recupero migliore. È incredibile come davanti alle traversie della vita una donna riesca a riemergere e un uomo no. Forse è anche questo che porta ai femminicidi, non so. Un uomo cade e non si rialza. Una donna è in grado di attingere a risorse che noi non abbiamo. Nel libro le donne subiscono l’inganno, la ferocia, la violenza eppure ne escono alla grande rispetto ai maschi da combattimento che restano sotto.

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