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Quando una serie è più efficace della realtà
Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Primo piano
Qualcosa di scritto
La Biblioteca nel primo incontro della rassegna “Sulle tracce del Novecento letterario” ha ospitato ieri, venerdì 9 novembre, Emanuele Trevi e il suo racconto su Pasolini
Pubblicato il 10-11-2012
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Il primo incontro della rassegna “Sulle tracce del Novecento letterario” ha avuto come protagonista Emanuele Trevi che nel suo libro Qualcosa di scritto, edito da Ponte delle Grazie, ha raccontato il Pier Paolo Pasolini degli anni ’70, lo scrittore di Petrolio. L’appuntamento è stato curato dall’associazione culturale bassanese Palomar, ha dialogato con l’autore Mattia Pontarollo.
Il titolo del romanzo-saggio di Trevi è preso dall’Appunto 37 di quello stranissimo prodotto letterario, incompiuto, scritto da Pasolini e pubblicato postumo nel 1992 da Einaudi. L’opera di Pasolini è tornata di recente protagonista nelle pagine di cronaca – in occasione del processo per la scomparsa del giornalista De Mauro, nel corso delle indagini è stato tirato in ballo da Marcello Dell’Utri un presunto capitolo scomparso di quest’opera, l’Appunto 21 – ma l’incontro in Biblioteca si è soffermato più che su questi spunti d’attualità sugli aspetti culturali e letterari della vita e dell’opera di Pasolini.
Con un taglio pseudo-autobiografico (“è la storia quasi vera di un incontro impossibile con Pasolini”, avverte la copertina) in Qualcosa di scritto Trevi ha posto in luce il concetto di “iniziazione”: la sua nei confronti della letteratura e quella di Pasolini, reiterata, perenne, verso alla vita. Quella di Pasolini è stata un’esistenza letterariamente tesa all’umanità, un flusso a gettata continua di racconto vitale elargito con la consapevolezza che la letteratura è in grado di esprimerne, non di esaurirne, il mistero. Il parallelo, la linea immaginaria tracciata da Trevi, crea una sorta di omogeneità tra lo scrittore e il suo lettore: l’iniziazione agisce direttamente sulla mente, non lascia un insegnamento ma un’impronta. Alla ricerca di un lavoro, ma forse in fondo più di un contagio, Trevi si è presentato negli anni Novanta a un colloquio al Fondo Pasolini di Roma, è stato assunto e ha lavorato a stretto contatto con Laura Betti, che di quella istituzione e della memoria di Pasolini è stata a lungo custode e, in un certo senso, sacerdotessa. Nella storia, Laura Betti, con la sua figura di donna innamorata di un uomo che non può amare altro che l’umanità, incarna il dualismo inconciliabile, lucido e folle, tra la chiaroveggenza (e la visionarietà) e la cecità dell’amore, un dualismo che nulla toglie all’autenticità di ciò che è espresso.

Pier Paolo Pasolini con Laura Betti e Goffredo Parise
È questo il campo visivo inconsueto, alterato, dove trova spazio la scrittura, dove può nascere il racconto. La letteratura mira a operare la conciliazione confidando nel potere delle parole, ambiziosamente mira a generare la vita, non a esserne figlia. “Essere scrittori ha a che fare con la capacità di essere autentici, di non nascondersi dietro corazze o maschere, usando questa autenticità come lente per indagare ciò che sta a attorno, e riversarlo poi nella propria opera”, ha affermato Trevi. Certamente. Attività che muove dal sogno che produce tanta inquietudine negli scrittori, quelli veri: più che riscrivere vorrebbero poter scrivere la vita.
Il racconto che Trevi fornisce nel libro della sua esperienza, a tratti traumatizzante, all’archivio Pasolini, è anedottico, affabulatorio, viscerale; la sua visione del fantasma di Pier Paolo Pasolini è rielaborata invece scientificamente sui dati di un ricco bagaglio di conoscenze riguardanti l’opera e la vita dello scrittore. “Di Pasolini oggi andrebbe indagata la modalità, senza indugiare, come spesso si fa, su qualche messaggio preso singolarmente estrapolato da un contesto che appartiene al tempo in cui è stato espresso”, ha affermato Trevi al termine dell’incontro. Il Novecento è lo sfondo dell’opera di Pasolini, la sua buona scrittura, il buon pensiero, non hanno tempo né età.
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