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Ci aveva lasciato esterrefatti con un horror filosofico come Antichrist in cui da una partenza poetica e dolorosa come la morte di un figlio si finiva alle più atroci violenze e vendette tra due genitori distrutti dal lutto.
Lo ritroviamo alle prese con la fine del mondo, minacciato dallo scontro con il pianeta Melancholia, che dà il titolo al film, e con la malattia dell’oggi che ha afflitto lo stesso regista, la depressione.
Presentato all’ultimo festival di Cannes, il film del danese Lars von Trier ha suscitato più clamore per la sua conferenza di presentazione (che ha mandato nel caos la Croisette con le dichiarazioni sul nazismo e su Hitler) che per l’opera in sé nonostante l’attrice protagonista, la bravissima e bellissima Kirsten Dunst, abbia vinto meritatamente la palma per la miglior interpretazione.
E’ così, Lars è sempre Lars, pronto a stupire e a sconvolgerci.
E con Melancholia ci riesce benissimo perché dietro la poesia e la suggestione di ambienti e di una fotografia sublimi si cela l’ansia, l’apatia e la malinconia che le protagoniste vivono.
Diviso in due parti ha il suo punto d’origine nel rapporto che lega due sorelle agli antipodi. Nella prima Justine, bellissima neo sposa sembra all’apice della sua felicità a inizio film, ma scopriamo man mano gli indizi e i segni di una malattia che si riaffaccia, di una depressione latente che nonostante una festa sontuosa, nonostante un marito apprensivo e zelante torna a farsi strada e a distruggerla. Veniamo così a conoscenza dell’intricata relazione con i familiari, con una sorella sempre presente ma incapace di capirla, con un cognato ricco ma poco sensibile, con dei genitori tutt’altro che modello. Una ragazza sola quindi, e così la lasciamo e la ritroviamo.
La seconda parte ruota invece attorno alla figura dell’altra sorella, Claire, e si svolge (e lo si capisce a fatica) dopo il matrimonio. Questa volta a sconvolgere l’armonia domestica è l’arrivo del pianeta Melancholia. Gli scienziati rassicurano che il passaggio di questo nuovo pianeta sarà vicino alla Terra ma non provocherà danni. Nonostante l’eccitazione di marito e figlio, questo però turba e mette in ansia Claire. Justine ormai isolata e non curante degli eventi, sembra invece aver già capito come tutto ormai stia per finire, e ne è quasi contenta, riuscendo a farsi carico dell’armonia e della cura del nipote sembra guarita, come se la morte non la spaventi più.
Se, come si dice, per un buon film basta un inizio che catturi e un finale che lasci senza parole Melancholia fa di più. L’incipit e la conclusione sono strettamente legati alla colonna sonora, se vediamo dapprima scene oniriche e quasi dei tableau vivant d’altri tempi, nel finale la musica classica di Wagner cresce e riempie, lasciandoci attoniti di fronte allo schermo ormai buio e al silenzio.
Melancholia è un film particolare e forse ostico in quanto non commerciale. Ma lascia senza parole, perchè la lentezza solita che von Trier ha per costruire la sua opera unita ai movimenti di camera volutamente sporchi e indagatori affascinano più della trama in sé, il potere sta nell’inquieta bellezza di ogni singola scena.
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