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Quando l’amore è una cura pericolosa

A dangerous method: Jung, Freud e la donna che li divise

Pubblicato il 29-10-2011
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Cinema e psicanalisi sono uniti fin dalla loro nascita. Nel 1895 infatti non solo aveva luogo la prima e storica proiezioni dei fratelli Lumiere ma veniva dato alle stampe anche il primo libro di Sigmund Freud sull’isteria. Un legame, questo tra le due scienze, che continua tutt’oggi a mietere successi e interesse. Vi sono diversi modi per le due scienze di convivere attraverso lo schermo: se da una parte si può usare una patologia o un malessere psichico per raccontare il film non solo tramite la trama ma anche attraverso gli estetismi che lo compongono, dall’altra possono essere messe in scena storie e trame che proprio della psicanalisi e dei suoi fondatori trattano
A dangerous method appartiene a quest’ultimo.

David Cronenberg decide infatti di rappresentare la vicenda che riguarda i più grandi psicanalisti nonché tra i fondatori di questa disciplina: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Tanto pragmatico e chiuso il primo quanto aperto e influenzabile il secondo. Il rapporto tra i due è sicuramente il cardine principale del film, anche se, come spesso accade è l’amore a prendere il sopravvento sulla scena. Sarà proprio l’amore illecito tra Jung e una sua paziente la goccia che farà traboccare l’amicizia e la collaborazione tra l’ebreo Freud e il protestante Jung. Se già la diversità religiosa non c’era riuscita, se le diversità economiche non l’avevano minata a fondo sarà proprio una donna e le relative conseguenze di questo rapporto a mettere fine e a dar sfogo a tutte le passate incongruenze e diversi modi di affrontare il metodo psicanalitico.
Amore che sembra però ossessione, tra Jung e la giovane da lui in cura per problemi isterici (e poi a sua volta famosa psicanalista) Sabina Spielrein. Il rapporto medico-paziente viene quindi travolto dalle attenzioni che i due si rivolgono per la reciproca stima lavorativa ma soprattutto dall’amore che se da una parte riesce a guarire (lei) dall’altra ammala e rende schiavo(lui), marito provato da una moglie devota e malinconica.
La vicenda era già stata trattata con grazia da Roberto Faenza nel suo Prendimi l’anima ma ora con Cronenberg rivive e fa riassaporare l’aria di inizio secolo ‘900 come solo un grande regista riesce a fare. Se l’ossessione amorosa e fisica resta in primo piano, dall’altra l’eleganza e la raffinatezza delle scene e dei costumi non rende cupo e morboso il film, le composizioni tecniche e l’uso dei colori sono infatti utili a rinfrescarlo e a renderlo visivamente ottimo. E se la composizione della trama è da definire classica, è però importante sottolineare come Cronenberg metta in risalto le fonti da cui questa intricata vicenda è venuta alla luce: il rapporto epistolare tra i tre che è stato scoperto e pubblicato solo recentemente permettendo di capire non solo come quegli anni fossero vissuti intensamente ma anche come la psicanalisi ha preso forma e si è evoluta.

Presentato all’ultimo Festival di Venezia annovera tra gli interpreti principali un cast stellare: dal premiato con la Coppa Volpi (per il film di Steve McQueen Shame) Michael Fassbender a Viggo Mortensen, da Keira Knightley che riesce a passare dall’isteria al masochismo con la sua bellezza a Vincent Cassel che interpreta l’amorale Otto Gross.
Il film si regge quindi su questi grandi attori e sulla loro interpretazione, mettendo in scena un film classico, in cui la trama ha il sopravvento sulla tecnica, il particolare sulla storia, l’amore sulle altre vicende.

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