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Prendi un regista affermato e apprezzato come Paolo Sorrentino e mettilo in una co-produzione internazionale tra Irlanda e Stati Uniti.
Prendi un attore fenomenale come Sean Penn e truccalo come Robert Smith dei Cure per interpretare una rock star degli anni ’80.
Prendi una storia tanto assurda quanto potente e quello che ne esce è This must be the place, un road movie che proprio nel viaggio trova la sua forma perfetta.

La storia racconta di una rock star immersa negli agi e nella noia della quotidianità fatta di visite non desiderate al cimitero, spese e incontri al centro commerciale della città in cui ha scelto di ritirarsi e in cui convive con una moglie stranamente “normale”, un’amica adolescente e altri strani personaggi. Ormai depresso per essere mira di smorfie e prese in giro per il suo essere copia di se stesso e autentico personaggio vivente, tutto cambia quando deve affrontare il ritorno a casa, negli Stati Uniti per la morte del padre. Qui viene a sapere che per tutta la sua vita il padre a cui non parlava da 30 anni non ha fatto altro che dare la caccia al criminale nazista che lo aveva umiliato ad Aushwitz e decide quindi di porre fine a questa ricerca.
Seguiamo così Cheyenne, questo il nome del protagonista, lungo le strade d’America, attraverso incontri e scontri con persone non meno strane di lui (dall’inventore dei trolley a David Byrne) che lo portano più vicino alla sua preda ma anche a fare i conti con se stesso e con i suoi rimorsi di figlio e padre mancato. Tra momenti di commozione e battute ironiche e taglienti, si arriva all’epilogo e alla conclusione del suo viaggio che non ha nulla della violenza, della crudeltà che ci si aspetta ma è solo un’atroce bellezza, quella che sta dentro la vendetta.
Sorrentino riesce ancora una volta a stupire, se con Il Divo aveva raccontato in modo perfetto gli anni bui dell’Italia, con This must be the place riesce ad incantare con una fotografia (non a caso del grande Bigazzi) e delle scene da oscar. Nonostante il film non abbia vinto nulla a Cannes, dove è stato presentato, si può ben dire che il regista ha vinto la sfida non solo di mettersi in collaborazione con una grande co-produzione internazionale ma anche di saper gestire e far brillare una grande star americana come Sean Penn. Il sodalizio tra i due rasenta la perfezione, la recitazione svogliata, annoiata e lenta dell’attore vive anche grazie ai movimenti di macchina che lo incorniciano e a dei dialoghi comici e profondi che lo caratterizzano.
Ciliegina sulla torta, infine, la colonna sonora. Passando dal rock anni ’80 sperimentale (vedi Talking Heads dalla cui canzone prende il titolo il film e che è ripresa in una delle scene più toccanti) fino alle cover moderne di questi brani, il film è impreziosito e arricchito dalla musica, che diviene un’ulteriore protagonista.
This must be the place è quindi un film che merita il successo e l’entusiasmo che sta avendo, perchè qualcosa nella storia disturba ognuno di noi, non si capisce bene che cosa, ma ci disturba e solo i grandi film sanno fare questo effetto.
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