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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Rumba: Celestini e il Poverello, a passo di danza ai margini del mondo
Al Teatro al Castello, in scena un San Francesco che cammina accanto agli ultimi di oggi, tra poesia e scomode verità
Pubblicato il 09-08-2025
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Martedì 5 agosto, Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato, spettacolo di Ascanio Celestini, è approdato al Teatro “Tito Gobbi” per Operaestate Festival. L’autore e attore romano con questo lavoro ha chiuso il cerchio della trilogia dei disperati iniziata con Laika e proseguita con Pueblo. Commissionato per l’ottavo centenario del presepe di Greccio, lo spettacolo non propone un racconto celebrativo, ma un incontro a tratti spiazzante tra Francesco d’Assisi e il mondo contemporaneo.
Il palco del teatro è nudo, quasi povero e quasi buio. Le mura millenarie del Castello ben si intonano a fare da sfondo. La scenografia rievoca certe piazzette da paesello, che contengono un intero mondo. Un sipario rosso custodisce un pannello luminoso con immagini realizzate di Franco Biagioni, nient’altro poi che una sedia di legno e quattro casse di plastica di quelle da bibite a reggere una tastiera. Da un lato, il musicista Gianluca Casadei, con la fisarmonica al collo; dall’altro, Celestini, a costruire con maestria un paesaggio fatto di parole, pause, piccoli gesti.
Ascanio Celestini al Teatro al Castello, per Operaestate Festival (foto Andrea Bosio)
Si parte dalla fine – dalla morte del Santo – per tornare indietro fino a incontrarlo vivo, in cammino tra corsie di supermercato che non hanno nulla della luce delle candele evocata dalla scena, accanto a chi vive senza riparo e si muove nell’ombra per non farsi vedere, in parcheggi illuminati da luci da centrale elettrica. Francesco diventa compagno di viaggio di un lavoratore alienato, arruolato in un magazzino, di una donna che porta un mondo nascosto in un foulard, di un giovane che guarda il mare come promessa e sa che può essere condanna. Figure reali e nello stesso tempo rese mitiche, che respirano il nostro stesso tempo.
“Quante sono le stelle nel cielo?” ripete Celestini più volte: fa pensare a un campanile che batte l’ora ma senza orologio, che si fa bussola e canto.
Il racconto si muove come una rumba: movimenti circolari, scarti improvvisi, un passo che alterna vicinanza e distanza. È una danza che mette insieme il dolore e una forma inaspettata di grazia, il disincanto e la voglia ostinata di guardare oltre un orizzonte che stranamente appare comune.
Non tutto è edificante, anzi, all’interno della narrazione si lascia che siano le crepe a raccontare. Il Francesco di Celestini non è quello degli altari e delle vetrate gotiche: è un uomo che con i suoi “frati” cammina a piedi scalzi e conosce la polvere, che ascolta senza giudicare, che resta saldo e vuole vedere anche quando la società gli imporrebbe di girarsi dall’altra parte.
La drammaturgia non cerca riparo nello spirituale per addolcire le miserie della realtà: porta in scena rabbia, pregiudizi, parole taglienti, li lascia scorrere affinché ciascuno possa decidere cosa farne. Per quasi due ore, Celestini, con il contributo di Casadei, intreccia musica e racconto come due fili dello stesso tessuto. Il risultato è uno spettacolo che non mira a intrattenere, ma tiene aperto uno spazio di ascolto, uno di quelli strutturati per non chiedere consenso, ma attenzione.
Lì dentro, e nello spazio tra una parola e l’altra, si intravede la possibilità che anche un parcheggio di periferia possa diventare, per un attimo, “terra santa”, e appare chiaramente che il messaggio di San Francesco si rinnova attuale.
Non una rievocazione ma una presenza, l’incontro fra un Santo del 1200 e le contraddizioni mai dome dell’umano.
Applausi dal pubblico di Operaestate.
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