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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
A teatro, alla ricerca di un padre perduto
Lunedì 31 luglio, al Castello degli Ezzelini, Operaestate ha portato in scena lo spettacolo con Lino Guanciale firmato da Davide Sacco
Pubblicato il 02-08-2023
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Operaestate Festival ha portato in scena lunedì 31 luglio, al Teatro “Tito Gobbi” nel Castello degli Ezzelini, lo spettacolo Napoleone. La morte di Dio, di Davide Sacco, una produzione LvF-Teatro Manini do Narni.
Liberamente tratto da testi di Victor Hugo, che lo scrittore francese raccolse in un piccolo libro (se può essere definito piccolo qualcosa che scrisse Hugo) lo spettacolo prende spunto dalla cronaca dei funerali dell’imperatore tenuti a Parigi nel 1840, a un ventennio di distanza dalla morte in esilio nell’Isola di Sant'Elena, avvenuta all’età di cinquantun anni il 5 maggio 1821.
Sul palco, a dare voce a parole e riflessioni del grande scrittore e pensatore francese e, più accentuato nella drammaturgia, a interpretare un figlio che ha appena perduto un padre, c’è Lino Guanciale, attore abruzzese molto apprezzato — ha ottenuto diversi riconoscimenti prestigiosi nella sua ormai ventennale carriera artistica — abbracciato dalla notorietà grazie alle sue interpretazioni al cinema e in serie televisive, ammirato anche per il suo impegno civile (tra le altre cose è testimonial per l'UNHCR - Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).

Lino Guanciale e Simona Boo, al Castello degli Ezzelini (foto Roberto Cinconze)
La scena, curata da Luigi Sacco con Andrea Pistoia, è governata dall’alto, da dove scendono a illuminare da vicino il racconto di Guanciale dei lampadari alcuni in stile industriale, altri imperiale, a seconda del contenuto del monologo che fa l’altalena tra “La Storia” e una storia personale, in riferimento al padre a cui si rivolge. A un certo punto, in un quadro piuttosto suggestivo dal sapore quasi egiziano, si illuminerà un grande sfondo dorato, e la panca su cui saliva e scendeva Guanciale nel fervore del suo discorso o preso dalla malinconia dell’abbandono diventa l’ombra nera di un feretro o di un obelisco. Scende dall’alto anche una bara in legno, che mima una caduta sul fondo con tanto di botto definitivo, e lì finisce la festa.
La cornice scenografica inquadra uno scorcio visto dal basso dei funerali imperiali e poi un camposanto dove invece gli sguardi sono rivolti all’ingiù, alla nuda terra che accoglie nude spoglie.
Simona Boo e Amedeo Carlo Capitanelli, in costumi d’epoca, abitano lo spazio cimiteriale e attraverso i gesti misurati e il canto (Boo, cantante partenopea dalla voce potente, tra le altre cose è componente dei 99 Posse) accompagnano un po’ da creature psicopompe il figlio all’incontro doloroso con la perdita del padre.
La tematica del monumento è centrale nella narrazione: si imbalsamano in monumenti di pietra imperatori, eroi e padri; si imbalsamano monumenti di parole che diventano odi, epitaffi, cori di gesta o tenere madeleine di piccole azioni quotidiane, si fa allo stesso tempo per ricordare e per dimenticare.
All’interno dello spettacolo per parlare del rapporto amoroso, e quindi controverso, che unisce padri e figli (anche e soprattutto senza vincoli legati alla biologia) trovano posto versi poetici, alcuni che conosciamo dai tempi della scuola: «Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro…», citazioni che parlano del senso della vita e dei suoi cicli sempre uguali, e frasi cantate prese dal repertorio cantautoriale e popolare: «Tutto il mio folle amore, lo soffia il cielo, lo soffia il cielo, così» (da Cosa sono le nuvole, di Domenico Modugno).
Detto con parole semplici, riportato a esperienze personali, si parla del lutto che viviamo quando ci lascia soli, viene a mancare, l’essenza di qualcuno/qualcosa che crediamo sempre verrà a prenderci quando ci smarriamo, qualcuno/qualcosa a cui tornare.
Guanciale si muove sul palco e cambia registro con naturalezza, facendosi attraversare senza resistenze dal caleidoscopio di sentimenti che governano l’evento devastante (qui sì, qui si può usare) della perdita di un padre, che sia biologico o meno, la perdita di un padre di quelli che si scelgono, o inteso come un ideale patrio (precisato che Hugo era un europeista), su questi assi ruota la drammaturgia firmata da Sacco.
“Figli e padri si incontrano davvero in due momenti: la nascita del primo e la morte del secondo”, viene detto, e con la morte del secondo può avvenire una seconda nascita del figlio, o la sua morte ancora in vita.
A cantare e chiamare con insistenza bambina la parola dolce “papà” è ancora Boo. A ricordare che un padre è divino, un “supereroe” diremmo oggi, ma resta sempre anche uomo, sono le parti del monologo che parlano di fragilità, di allontanamenti, della malattia, con la sua apparente perdita di dignità: non si vorrebbe vedere un genitore che se la fa addosso, ma tutti ce la faremo addosso prima o poi, ce lo ricorda Guanciale e per fare un salto dall’Ottocento ai nostri giorni lo scrive anche Giorgio Vasta in un bel racconto, forte e struggente, intitolato: Defecatio Post Mortem.
Sono tante le linee narrative a cui guarda lo spettacolo, più di quella fulgida della Storia emergono strade in grigio da percorrenza umana; il tono della malinconia sovrasta l’invettiva politica e i paralleli inevitabili legati alla religione. In più passaggi è stata affermata per voce di Hugo la forza immortale della scrittura, salta subito in mente la potenza espressiva di certi obituaries anglosassoni nel raccontare vite ordinarie e straordinarie, ma non si può non riflettere sul ruolo che hanno avuto e hanno scrittori e artisti nel traghettare memorie senza conoscere le quali non saremmo che grovigli di viscere ambulanti (consumatori perfetti, alfine).
Lino Guanciale, anche nel corso dello spettacolo filmato e fotografato a più riprese senza riguardi da diverse fan, ha interpretato con prestanza, semplicità e partecipazione la parte di chi rimane orfano, del “figlio” che piange un dio-padre come Napoleone.
Caldi applausi, dal pubblico di Operaestate.
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