Laura VicenziLaura Vicenzi
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Una recensione di Bugiarda no, reticente, di Franca Valeri

Pubblicato il 17-08-2020
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Scorrere i titoli di tante opere artistiche espresse in una vita, seppur lunga come è stata quella di Franca Valeri — si può fare in velocità anche su Wikipedia — dà la cifra non solo della varietà del suo talento, ma anche della propensione al lavoro di una donna che si ricorda come “la Signorina snob”.
Tra queste c’è un libriccino, intitolato Bugiarda no, reticente (Einaudi, 2010, 103 pagine, 10 euro) in cui la Valeri parla di sé malvolentieri, col birignao, ma lo fa in vero con un’onestà da occhi negli occhi e con una certa dose di spietatezza di quella che solo le persone davvero ironiche sanno ben maneggiare. La Valeri — nientemeno che da Valéry (Paul) — avverte il lettore già dall’inizio, dichiarandosi poco sicura che sia interessante scrivere della sua vita anche per chi la scrive, dato che l’ha vissuta e la conosce già. La “fecondazione assistita” che ha riempito le vetrine dei librai non ha bisogno di un altro fiocco, rosa tra l’altro, e da lì parte un aneddoto che parla della madre Cecilia, una donna le cui affermazioni erano considerate storiche in famiglia che voleva un maschio, Cesare, e che si è accontentata a metà prezzo di lei, Alma Franca Maria, preferendo apertamente il fratello alla bambina — ma niente psicoanalisi, per carità. Lei, Franca, avrebbe voluto assomigliare al padre “raffinato, esterofilo, antifascista e goloso” dal quale ha ereditato la passione per fondant e marron glacé.
Tra i primi ricordi, da una bambina che poteva indossare vestiti che arrivavano da Parigi e recarsi alla Scala e contare sulla servitù e passare d’estate tre mesi in hotel a Riccione e poi da ragazzina al Lido di Venezia all’Hotel Des Bains e poi qualche settimana d’inverno sulle Dolomiti un po’ di sano snobismo ce lo si aspetta, ma di sottofondo alla lettura di tanti aneddoti snocciolati come sempre con quella pepata dose di ironia suona sempre una nota triste, non nostalgica, solo triste. D’altra parte, l’amore per la musica attraversa tutte le pagine di questo breve racconto di sé forse sì un po’ bugiardo, reticente di sicuro. C’è il ricordo di un “Requiem” di Verdi a Firenze che è come una folgorazione e che si alza sopra il frastuono delle prime bombe della guerra, perché c’è anche la cacofonia dei brutti decenni del Novecento, a suonare in tragedia. Franca detestava le imitazioni ma iniziò proprio con quelle, perfezionando un personaggio che ricalcava i passi felpati delle signore bene e che fu incarnato dalla Signorina snob, e nell’amore per l’assurdo che ha accompagnato anche la Signora e la Vecchia Signora snob. Arriva poi Cesira, la manicure milanese, con il suo ostinato e dolente ottimismo; poco dopo è nata la signora Cecioni, romana, sarta mal maritata. Tre pilastri che hanno retto per anni il suo teatro, afferma la Valeri, che aggiunge: “il lavoro è quel meraviglioso individuo (dai più odiato) che ci accompagna, e che pretende la fedeltà forse più difficile”. C’è una parentesi parigina, seguita da una dedicata ai Caffè.

Franca Valeri

Le digressioni sono tante, quasi totalizzanti, l’autobiografia procede non sempre in ordine cronologico e con un andamento natatorio che a rapide bracciate, quando meno ce lo si aspetta, scende in profondità inattese. Aprile il più crudele dei mesi le porta via i genitori. Il matrimonio allegro con Vittorio (Caprioli) è seguito dagli anni d'amore vissuti con un musicista traditore che la chiamava “asino”, ma sono i sodalizi, quello con Peppino, e le amicizie che hanno come base il lavoro o i rapporti con la figlia adottiva e gli animali da compagnia, a essere raccontati con più dolcezza. «La nostra generazione è nata in puro lino, e sia pure con un golfino addosso di pura lana anche rattoppato, ha attraversato percorsi autenticamente impervi. Era preparata… Quando non si faceva uso del termine “evento” succedevano veramente tante cose». Non si trovano i discorsi che ci si potrebbe attendere da una donna sulla soglia dei novant’anni (tanti ne aveva quando è uscito il libro) sull’era meglio quando eravamo giovani noi, ma si avverte una sorta di inquietudine sulla mancanza di avvenire (non di futuro) che si respira ai nostri giorni.
Il segreto di tanta longevità, accanto alla genetica? L’assenza di frequentazione con la noia, scrive la Valeri, la scelta di non dissipare le parole, assieme a un amore per il bello, in ogni sua forma, che si rivela da tanti riferimenti all’arte, ai libri, alla musica, alla moda. Questa autobiografia che nelle sue ultime pagine afferma il desiderio di un graffito, è imbastita di allusione e in fine di una reticenza calcolata con esattezza.
Leggere la vita di Franca Valeri, fa ribadire con lei: «La comicità è un lavoro di cervello».

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