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Modalità lettura - n.10

L'Europa è kaputt? Lo sguardo disincantato, crudele e poetico, rivolto sugli uomini e la loro storia, di Curzio Malaparte

Pubblicato il 23-04-2017
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Elena Pavan

In tempi di crisi per l'Europa che conosciamo, di abbandoni di Stati membri, di trepidanti elezioni nazionali e della nascita, altrove, di madri e padri di tutte le bombe, scegliere di leggere Kaputt, di Curzio Malaparte, non è un tuffo nel passato, un'incursione di quelle che sanno di doveroso nella memoria: risponde forse al bisogno interiore di cercare dei punti fermi per riallineare le prospettive e di fare i conti con un'assunzione di responsabilità non inferta da terzi poco credibili, ma fraterna – quella che si avverte sulla pelle, da spettatori/lettori, seduti davanti a chi ha saputo raccontare la lotta dell'uomo con la bestia (mai l'animale) che ha in sé.


In Kaputt (tascabili Adelphi, 2014, pp. 476, euro 13), che Curzio Malaparte iniziò a scrivere nel 1941 in Ucraina, poi in Polonia, in Finlandia, e che terminò a Capri, nel 1943, lo scrittore mette in scena un “viaggio al termine della notte” tra gli spettri di un’Europa in guerra, «e anch’io» – afferma Malaparte – «ero certo uno spettro, lo spettro opaco di un’età remota, forse felice, di un’età morta, forse, forse felice».
È un viaggio visionario, vissuto a volo d’uccello, narrato in più lingue e dominato da mostri, tutti a sembianza umane, il più terribile dei quali è trasfigurato nel volto della disfatta del vivere civile, quello narrato in questo non-romanzo da Malaparte. Da una parte au côté de Guermantes, per il suo stato di interlocutore colto e privilegiato, ospite dei potenti delle corti europee e degli alti gerarchi militari, dall’altra a lottare nella neve e nel fango come può fare uno scrittore, che vive sulla pelle degli altri le vicende e le sofferenze che racconta, Malaparte dà voce a orrori che trasformano in statue di ghiaccio uomini e animali e a gesti di profonda umanità, di quelli che costellano sempre i momenti dell’esistenza la cui cifra è l’intensità, il vivere l’attimo: tutto si confonde in questo libro scritto magnificamente, e anche per questo crudele e forte come pochi.
Malaparte, che fu imprigionato a Regina Coeli e deportato a Lipari, nelle Eolie, per la sua propensione a pensare e a scrivere da “cane sciolto”, svolse il suo doppio compito di ufficiale del Regio Esercito e di corrispondente di guerra italiano al seguito delle truppe tedesche in Ucraina, in Polonia, in Finlandia e dopo la caduta di Mussolini tornò in Italia, a Roma e poi a Napoli. Il suo sguardo attento, tra i capitoli, si sofferma sull’agire dei popoli (russi, polacchi, francesi, spagnoli) ma principalmente guarda all’agire dei Tedeschi, nel tentativo di capire, di spiegare – di questi racconta soprattutto la grande paura della debolezza e della libertà – e con disincanto e spirito critico anche al comportamento degli Italiani: «Io ho perso l’abitudine di agire […] Sono un italiano. Non sappiamo più agire, non sappiamo più assumere alcuna responsabilità, dopo venti anni di schiavitù. Ho anch’io, come tutti gli italiani, la schiena spezzata. In questi venti anni abbiamo speso tutta la nostra energia per sopravvivere. Non siamo più buoni a nulla. Non sappiamo che applaudire».
È un continente-carogna, una giumenta morta, che eppure profuma di patria, quello che percorre Malaparte in quegli anni, seguendo pietosamente, da innamorato, un mito dell’Europa lontano anni luce dalle logiche dell’economia e della finanza che ne imbastiranno i confini nei tempi a venire.
La guerra in questo libro è un paesaggio, uno scenario che più che esplodere implode.

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